Il movimento transnazionale anti-gender in Europa

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Negli ultimi anni, i movimenti anti-femministi e populisti di destra che si sono mobilitati contro la parità di genere, la salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti (SRHR) [*1] hanno guadagnato terreno in tutta Europa. Questo rafforzamento porta anche alla luce un movimento anti-gender indipendente sempre più organizzato e finanziato a livello transnazionale che attacca i diritti delle donne e delle persone LGBTIQ* [*2], oltre che la società civile nel suo complesso.

Allumettes prenant feu

Di Marie Wittenius (con contributi di Katrin Lange), ricercatrice presso l’ Osservatorio per gli sviluppi sociopolitici in Europa.

Negli ultimi anni, i movimenti anti-femministi e populisti di destra che si sono mobilitati contro la parità di genere, la salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti (SRHR) [*1] hanno guadagnato terreno in tutta Europa. Questo rafforzamento porta anche alla luce un movimento anti-gender indipendente sempre più organizzato e finanziato a livello transnazionale che attacca i diritti delle donne e delle persone LGBTIQ* [*2], oltre che la società civile nel suo complesso. Ciò è evidente non solo sul piano nazionale (e locale), ma anche europeo, dove si stanno creando alleanze transnazionali che cercano di minare le fondamenta dell’Unione e di rovesciare un consenso già esistente a livello comunitario. Il movimento anti-gender colpisce le basi dei diritti umani in vari modi, tutti accomunati dallo spauracchio della cosiddetta “ideologia gender”.

L’“ideologia gender” come proiezione di un nemico comune

"Quando si parla di genere ci si riferisce sostanzialmente alle relazioni sociali di genere, cioè le idee, le aspettative e le norme rivolte alle persone all’interno di una società. Queste relazioni di genere non sono predeterminate dalla natura, ma dalla società. Ne fanno parte, per esempio, i comportamenti che si presuppone donne e uomini dovrebbero tenere in base al proprio genere. A seconda del periodo storico e delle diverse società, tali comportamenti presunti possono cambiare nel tempo. Le relazioni di genere non sono inalterabili, ma possono essere modificate e plasmate [1]."

C’è un’enorme varietà nel movimento anti-gender in termini di motivazioni, argomenti a sostegno delle proprie tesi e grado di istituzionalizzazione. Nonostante le differenze nazionali, storiche e sociali nello sviluppo e nella costruzione di questi movimenti in Europa, è comprovata l’esistenza di una forte rete strategica e finanziaria transnazionale che si batte contro un nemico comune: l’“ideologia gender”. Per sintetizzare l’opposizione al concetto di “gender”, vengono usati diversi termini come anti-genderismo, guerra al gender o movimento anti-gender. Malgrado queste differenze terminologiche, la letteratura specializzata concorda sul fatto che abbiamo a che fare con un fenomeno transnazionale che fa uso di narrazioni nazionali e locali, ma mantiene una coerenza che travalica i confini [*3], [2], [3].

La lotta all’“ideologia gender” fa da comune denominatore e su di essa si proiettano i vari obiettivi politici del movimento. Su questo termine si trasferisce quindi un’ampia gamma di idee razziste, antisemite, omofobiche e transfobiche, ed etnico-nazionaliste, nonché un sentimento di ostilità verso le élite. Il nemico comune unisce una moltitudine di attori diversi, come gruppi di destra, partiti populisti di destra, organizzazioni fondamentaliste cristiane, ma anche conservatori borghesi o circoli neoliberisti [4].

Origine del termine “ideologia gender”
Nato all’interno della Chiesa cattolica, il termine si è sviluppato nello specifico come risposta alle richieste di rafforzamento dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne, a margine per esempio della Conferenza mondiale sui diritti umani di Vienna (1993), la Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo del Cairo (1994) e la Conferenza mondiale sulle donne di Pechino (1995) ([5]: Kuhar & Paternotte 2017).

Origins of the term

L’opposizione organizzata alla promozione di politiche sulla parità di genere e sulla salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti – e anche lo stesso termine “ideologia gender” – non è un fenomeno nuovo nelle società europee. A guidare questo fronte, dagli anni ’90 del secolo scorso, sono stati gli ambienti conservatori, la Chiesa cattolica e i partiti populisti di destra. Tuttavia, la mobilitazione politica di segmenti più ampi della società è avvenuta solo in un secondo momento. L’espressione “ideologia gender” ha trovato in particolare una forte risonanza nella scena dell’ultra-destra e non sarebbe diventata così famosa se non fosse stata inserita nelle narrazioni populiste di destra. Un nuovo sviluppo dell’ultimo decennio è stata l’unificazione transnazionale e la cooperazione organizzata dei diversi sottogruppi di questo fronte di opposizione, riuniti sotto la narrazione della lotta all’“ideologia gender” [8]. 

Il movimento anti-gender e il populismo di destra
I movimenti populisti di destra e il movimento anti-gender sono strettamente intrecciati, poiché il concetto di “ideologia gender”, a cui è stato dato forte slancio proprio dai populisti di destra, condivide con questi ultimi alcune impostazioni ideologiche e un certo tipo di retorica. Comune a entrambi è in particolare (ma non solo) un forte senso comunitario, l’idea di un “noi” contrapposto agli “altri”, che possono essere le élite percepite come corrotte, i poteri internazionali e sovranazionali (Bruxelles, per esempio), o la “lobby” femminista. Il termine “gender” di solito non è tradotto nelle rispettive lingue nazionali, per farlo apparire straniero e imposto dall’“esterno”. Ciononostante, le campagne anti-gender non andrebbero viste come una manifestazione o una conseguenza diretta dell’avanzata del populismo di destra. La pluralità degli attori – molto maggiore all’interno del movimento anti-gender – e il forte orientamento religioso del movimento anti-gender rendono impossibile un’equiparazione chiara e diretta con il populismo di destra ([9]: Kuhar & Paternotte 2017, Paternotte & Kuhar 2018).

Le prime manifestazioni esplicitamente anti-gender si sono tenute nella metà degli anni 2000 in paesi come la Spagna, la Croazia, l’Italia e la Slovenia, contro l’introduzione del matrimonio fra persone dello stesso sesso o contro l’educazione sessuale nelle scuole. Con oltre 120000 partecipanti, le proteste di massa del movimento “Manif pour Tous” contro la legge per l’introduzione dei matrimoni omosessuali in Francia nel 2012 hanno segnato l’apice della mobilitazione e hanno ottenuto un livello di visibilità all’epoca senza precedenti [10].

Manif pour Tous – Manifestazione per tutti
Nata in Francia nel 2012, “Manif pour tous” è un’associazione che si oppone ai matrimoni omosessuali e all’“ideologia gender” e raggruppa diversi movimenti, organizzazioni cattoliche e non governative, think tank conservatori, blogger e intellettuali. Nel novembre del 2012 ha indetto a Parigi la sua prima manifestazione contro i matrimoni tra persone dello stesso sesso radunando oltre 120000 partecipanti ([11]: Kováts & Põim 2015).

La relazione ambivalente del movimento anti-gender con l’Unione europea

Questa fiammata è vista dalla letteratura specializzata come un punto di svolta decisivo e l’inizio di una più massiccia diffusione di movimenti simili nel resto d’Europa, per esempio in paesi come la Germania, l’Italia, la Polonia, la Russia e la Slovacchia. Movimenti che talvolta sono intervenuti nei dibattiti politici in corso e si sono opposti a determinate proposte di legge, o che altre volte hanno messo in campo azioni preventive per impedire che certe politiche cambiassero nella direzione da loro temuta. I loro attacchi sono rivolti soprattutto contro i diritti delle persone LGBTIQ*, la medicina e i diritti riproduttivi, nonché l’educazione sessuale e la parità di genere [12]. Le azioni progressiste in questi ambiti sono presentate come strumenti per “propagandare l’omosessualità” o “abolire la famiglia” [*4].

Pur avendo poteri limitati in tema di diritti sociali e parità, l’Unione europea influenza le politiche nazionali attraverso meccanismi “soft”– imponendo, per esempio, degli standard minimi comuni o un indirizzo strategico come quello indicato nella Strategia per la parità di genere e nella Strategia per l’uguaglianza LGBTIQ [*5]. L’Ue influenza inoltre le legislazioni nazionali attraverso un solido inquadramento normativo antidiscriminatorio, in cui ricade per esempio la parità di trattamento nel mercato del lavoro, e attraverso l’orientamento giurisprudenziale della corte europea di giustizia [*6].

Da un lato l’Ue (spesso chiamata in astratto “Bruxelles”), e anche altri organismi internazionali, sono visti come un’“élite corrotta” che mette a rischio gli stati nazionali, la loro sovranità e i loro valori [13]. A titolo di esempio: in una grande manifestazione contro l’educazione e l’informazione sessuale a Varsavia nel 2015 su alcuni cartelli il gender era definito l’“Ebola che arriva da Bruxelles”. L’immagine dell’oppressione colonialista dell’Unione europea, e di conseguenza dell’Ue come origine del male, viene veicolata ad arte [14]. 

Dall’altro lato, la rete transnazionale degli attori coinvolti – fino ad arrivare alla loro rappresentanza dentro il parlamento europeo – è una componente importante del movimento. Nelle elezioni europee del 2019 la percentuale di parlamentari contrari alla parità di genere, ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne, all’educazione sessuale, ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e alla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, è raddoppiata fino ad arrivare intorno al 30 per cento [15].

Il movimento anti-gender dentro il parlamento europeo
In particolare, gli ottimi risultati della Lega in Italia, del Partito della Brexit in Inghilterra (che poi ha lasciato il Parlamento il 31 gennaio 2020), di Diritto e Giustizia (PiS) in Polonia, di Fidesz in Ungheria e del Rassemblement National in Francia hanno contribuito alla grande crescita del movimento. La maggior parte di questi parlamentari sono iscritti al gruppo nazionalista e populista di destra Identità e democrazia (ID) o al gruppo dei Conservatori e riformisti europei (ECR). Tuttavia, ci sono parlamentari europei che sostengono le stesse idee anche nel Partito popolare europeo (EPP) e nell’Alleanza progressista dei socialisti e democratici (S&D) ([16]: Zacharenko 2019).
Il progetto di ricerca Genere, partiti e democrazia in Europa: studio sui gruppi politici del parlamento europeo (EUGenDem) dell’Università di Tampere in Finlandia, finanziato del consiglio europeo della ricerca, analizza, tra le altre cose, la politica dei partiti in relazione al genere. Il workshop “Mobilitazione intorno a genere e diritti sessuali e riproduttivi nelle istituzioni europee”, organizzato dal progetto nell’aprile del 2021, si è concentrato sulle implicazioni politiche della presenza e dell’influenza del movimento anti-gender nelle istituzioni comunitarie. È possibile vedere la registrazione del workshop sul sito del progetto.

Il rafforzamento e la crescente rappresentanza dei partiti populisti di destra nel parlamento europeo, ma anche nel consiglio europeo o nel consiglio dell’Unione europea, ne sta aumentando l’influenza durante i dibattiti sulle politiche per la parità di genere, per esempio quando votano contro l’utilizzo del termine o del concetto di “genere” nei documenti ufficiali.

Le dispute sul termine “genere” nei documenti ufficiali
I parlamentari polacchi e ungheresi in modo particolare stanno portando avanti una lotta a Bruxelles contro l’uso dell’espressione “parità di genere”. Entrambi i paesi fanno riferimento all’espressione “parità fra uomini e donne” nel Trattato sull’Unione europea. Questo principio, caposaldo dell’Unione europea, fu introdotto nel 1957 con il Trattato di Roma e si fondava sulla parità di retribuzione per lavoro di pari valore. Nella sostituzione di “tra uomini e donne” con “parità di genere”, formula più attuale e inclusiva, chi è contrario al termine vede confermati i propri timori sull’“ideologia gender”: la presunta dissoluzione dei due sessi “naturali”, cioè uomo e donna ([17]: POLITICO 2020, vgl. auch Kováts 2019).
Un esempio concreto è la Dichiarazione di Porto sugli affari sociali, adottata dal consiglio europeo l’8 maggio 2021. Diversi media hanno riportato in anticipo che Polonia e Ungheria avevano messo il veto all’espressione “promuovere la parità di genere” nella sezione 10 e fatto inoltre pressione perché fosse inserito un riferimento al Principio 2 del Pilastro europeo dei diritti sociali, in base al quale “la parità di trattamento e di opportunità tra donne e uomini deve essere garantita e rafforzata in tutti i settori”. La versione finale evita il termine “genere” e recita “promuovere l’uguaglianza […] di ogni individuo nella nostra società” ([18]: EURACTIV 2021).

Argomenti principali: glorificazione dei ruoli di genere “naturali”, immagine della famiglia tradizionale e difesa del benessere dei bambini.

Oltre al rifiuto del concetto di “genere” [*7], il movimento anti-gender porta avanti a livello transnazionale i seguenti temi, attraverso i quali se ne possono evidenziare i principali argomenti:

  • Matrimonio tra persone dello stesso sesso: è un tema che scatena spesso proteste e di solito va di pari passo con le discussioni sul diritto di adozione per le coppie omosessuali, la maternità surrogata, la medicina riproduttiva e la possibilità di accedervi sia per le persone single che per le coppie omosessuali. I diritti delle persone LGBTIQ* sono spesso il bersaglio privilegiato degli attacchi del movimento anti-gender. Il matrimonio omosessuale è quindi presentato come l’anticamera di riforme politiche volte specificamente ad abolire i ruoli “tradizionali”, “naturali” di madre e padre e, in generale, il concetto di genere binario di uomini e donne come unici due sessi. La diversità sessuale è quindi considerata un’“abolizione della famiglia” (cioè la famiglia nucleare eteronormativa).
  • Diritti riproduttivi: storicamente, è intorno a questa la questione che è nato il movimento negli anni ’90. Aborto, contraccezione e accesso alla medicina riproduttiva continuano a essere temi centrali. L’aborto è visto coma una “cultura di morte” ed è contrastato con fermezza dalla Chiesa cattolica e da altre organizzazioni religiose.
  • Educazione e informazione sessuale nelle scuole: la possibilità di parlare a scuola di parità di genere e omosessualità è osteggiata con particolare veemenza. Il movimento anti-gender usa l’immagine del bambino innocente danneggiato in modo permanente nel proprio sviluppo dalla confusione, per esempio, su certi “fatti naturali”, come l’esistenza di due soli generi/sessi. L’esposizione a un’“eccessiva” educazione sessuale e la promozione della “promiscuità sessuale” porterebbero a una presunta “ipersessualizzazione” dei bambini in tenera età. 
  • Diritti democratici: in questo contesto, l’“ideologia gender” è descritta come un progetto politico. Viene spesso evidenziato il ruolo delle “élite corrotte”, che avrebbero l’obiettivo di sfruttare l’“l’ideologia gender” come nuova forma di totalitarismo contro il volere del pubblico/popolo. In alcuni casi l’“ideologia gender” è presentata anche come una nuova ideologia di sinistra basata sul comunismo, o un progetto occidentale neo-colonialista. Ad ogni modo, il movimento anti-gender si presenta come difensore della democrazia contro l’“ideologia gender”, nuovo sistema politico anti-democratico. Viene spesso citato anche il diritto alla libertà religiosa, dato che il progetto politico dell’“ideologia gender” costringerebbe i cristiani, in particolare, ad agire contro la propria coscienza [19]. 

Tutti questi argomenti puntano a smuovere emozioni come la rabbia e la paura. L’“ideologia gender” viene presentata come una minaccia a un determinato ordine (per esempio i ruoli di genere, la famiglia) e le conseguenze percepite (come il pericolo di mettere a repentaglio il benessere dei bambini o di veder limitata la propria libertà religiosa) sono usate per fomentare paura e rabbia verso la correttezza politica, le “élite” o la politica in generale [20]. 

L’attenzione alle famiglie “tradizionali”, la concezione “naturale” (cioè binaria) del genere, così come il nesso fra questi due aspetti e la protezione dei bambini dalla presunta “diffusione dell’omosessualità” o dall’“abolizione della famiglia” sono i classici argomenti del movimento anti-gender.  Tuttavia, oltre ai temi religiosi e conservatori, il movimento anti-gender ora si appropria spesso e reinterpreta fatti scientifici e questioni relative ai diritti umani. C’è per esempio una narrazione che sostiene l’esistenza di un conflitto normativo: il fatto che le leggi internazionali tutelino il diritto alla vita prima della nascita viene usato come giustificazione per vietare l’aborto [21]. 

Oltre alla Chiesa e agli ambienti conservatori che potrebbero passare per “fuori moda”, anche la società civile è scesa in campo lanciando iniziative di “cittadini preoccupati”, che spesso montano campagne anti-gender su larga scala e organizzano proteste. Ne sono un esempio Manif pour Tous (Francia, Italia), Demo für Alle (Germania), U ime obitelji (Croazia), o Civilna iniciativa za družino in pravice otrok (Slovenia), che raccolgono un pubblico molto più ampio perché sembrano più giovani e moderne. Criticando i valori liberali come l’individualismo, i diritti umani e la parità di genere, o anche il capitalismo globale, creano una nuova mobilitazione politica transnazionale. Gli anti-gender formano una società civile anti-elitaria che rifiuta l’individualismo e i diritti delle minoranze come valori fondanti delle democrazie liberali. Questi movimenti possono fare da organizzazioni ombrello per diverse sotto-organizzazioni e creare una rete transnazionale europea [22]. 

Un esempio della crescita del movimento anti-gender in Europa: la “guerra al gender” contro la Convenzione di Istanbul

Un esempio che mostra bene come il movimento anti-gender stia agendo contro i diritti delle persone LGBTIQ* e delle donne a diversi livelli (nazionale, europeo, istituzionale) e con narrazioni differenti (si vedano più sotto gli esempi relativi a paesi specifici) è la Convenzione di Istanbul.

Firmata a Istanbul nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, è ad oggi lo strumento legale più vincolante a livello internazionale per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica. Il documento si basa su un concetto di violenza molto ampio, che ne comprende tutte le forme. La Convenzione stabilisce che la violenza contro le donne e la violenza domestica sono una violazione dei diritti umani. Questa forma di violenza è espressione di una relazione di potere storicamente diseguale fra uomini e donne e va considerata come conseguenza di una discriminazione strutturale. In questo contesto, la Convenzione definisce il termine “genere” – oggetto di una controversa discussione nella fase di stesura del documento – come una serie di ruoli, comportamenti, attività e caratteristiche definiti da una determinata società che li considera appropriati per uomini e donne. In tal senso, l’accordo impegna i firmatari a eliminare pregiudizi, costumi, tradizioni, eccetera basati sull’idea dell’inferiorità delle donne o sull’esistenza di ruoli specifici assegnati a uomini e donne. 

Al contempo, i diritti delle persone LGBTIQ* non sono ancora riconosciuti a sufficienza dalle leggi nazionali e internazionali, e non hanno ricevuto un riconoscimento strutturale neanche nella Convenzione di Istanbul [23]. Tuttavia, con l’implementazione della Convenzione – e in particolare con le misure a tutela dei diritti delle vittime – i firmatari sono obbligati a non discriminare le persone vittime di violenza in base, tra l’altro, al loro orientamento sessuale o alla loro identità di genere [24]. A tal proposito, il consiglio d’Europa afferma che le donne lesbiche, bisessuali e trans* hanno accesso a misure di protezione per esercitare il loro diritto a vivere una vita libera della violenza.  Nei programmi di protezione possono entrare anche gli uomini gay vittime di violenza domestica [25]. 

Le controversie sui concetti di genere come costrutto sociale e di violenza come fenomeno strutturale a 360º, alla base della Convenzione di Istanbul, hanno portato in anni recenti a una loro politicizzazione sempre più aspra da parte di un movimento anti-gender che si è organizzato a livello transnazionale.   La Convenzione di Istanbul è demonizzata come un cavallo di Troia attraverso il quale il consiglio d’Europa vuole “insinuare” nei vari stati il matrimonio omosessuale e un ampliamento dei diritti per le persone LGBTIQ*. Si sostiene che l’“ideologia gender” sia un concetto imposto da “fuori” o dall’“alto”, un concetto che, secondo chi lo osteggia, svilirebbe valori e idee tradizionali maggioritari all’interno dei rispettivi paesi e minaccerebbe, tra le altre cose, l’“ordine naturale dei sessi”. Si dice inoltre che una mancata linea di demarcazione fra uomini e donne non farebbe che mettere le donne in una posizione di ulteriore svantaggio. Il movimento anti-gender non si focalizza dunque sulla violenza contro le donne, cioè il fulcro della Convenzione, ma su costrutti che tengono insieme l’idea della Convenzione come “anticamera” del decadimento dei valori tradizionali e i principi guida dell’“ideologia gender” [26]. 

Il movimento anti-gender ha portato avanti con sempre maggior successo questa politicizzazione del problema della violenza contro le donne, che in sostanza ha portato a evidenti tendenze retrograde in diversi paesi: 

  • la Bulgaria ha firmato la Convenzione nel 2016. Nel 2018, però, la corte costituzionale l’ha dichiarata incostituzionale.  Con otto giudici favorevoli e quattro contrari, la Corte ha stabilito che l’uso del genere fatto dalla Convenzione come costrutto sociale violava la costituzione bulgara, che sostiene una concezione binaria del genere (maschio e femmina) [27]. 
  • La Polonia ha ratificato la Convenzione nel 2015. C’è però un’iniziativa di legge attualmente in discussione nel Parlamento per ritirare la ratifica. Il 30 marzo 2021 il parlamento ha rinviato a ulteriori lavori delle commissioni il progetto di legge “Sì alla famiglia, no al genere”. Lo stesso governo sostiene che la Convenzione di Istanbul non rispetti la religione e promuova l’“ideologia gender”. C’è il timore che la Convenzione possa essere sostituita da un nuovo trattato che metterebbe anche al bando i matrimoni omosessuali [28]. 
“Zone libere dall’ ideologia LGBT” in Polonia
Nel Rainbow Index – che l’organizzazione che raggruppa le associazioni LGBTIQ* in Europa, ILGA-Europe, compila con gli attivisti – la Polonia è l’ultima fra gli stati membri dell’Ue. L’indice è uno strumento di confronto aggiornato di continuo che valuta le leggi e le politiche per l’uguaglianza delle persone LGBTI in 49 stati europei. ILGA-Europe ha anche creato una timeline sull’aumento dell’odio verso le persone LGBT in Polonia dal 2018 a oggi.
Il partito conservatore al potere in Polonia, Diritto e Giustizia, usa la narrazione di un attacco alla famiglia tradizionale e di una minaccia al benessere dei bambini per accrescere il sentimento anti-LGBTIQ* e il sostegno alle relative misure legislative. Il fenomeno va di pari passo con gli attacchi anti-femministi ai diritti sessuali e riproduttivi delle donne. C’è per esempio un progetto di legge per bandire l’educazione sessuale dalle scuole in cui si ritiene, fra le altre cose, che dare ai minori informazioni sulle persone LGBTIQ* sia un atto di “propaganda”. La mobilitazione contro le persone LGBT è diventata particolarmente accesa durante la corsa alle elezioni presidenziali del 2020: durante la campagna elettorale, l’allora presidente in carica – poi rieletto – Andrzej Duda disse che le persone LGBT non sono persone, ma semplice ideologia. A partire dall’estate del 2019, un terzo abbondante dei comuni, dei distretti e dei voivodati si era almeno temporaneamente dichiarata “zona libera dall’ideologia LGBT”. In precedenza i tribunali avevano messo al bando l’espressione di un giornale che distribuiva sticker con la frase “zona LGBT-free”. Le persone LGBT che vivono in queste aree, prevalentemente nel sud-est del paese, riferiscono un aumento significativo di atti di aperta discriminazione.
Al momento, il numero di queste “zone” si è dimezzato: il 22 settembre 2021 la regione di Swietokrzyskie ha annullato una mozione contro la cosiddetta “ideologia LGBT” dopo che l’Unione europea aveva minacciato di sospendere i fondi del programma REACT-EU (Pacchetto di assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d'Europa). Altre tre regioni hanno fatto lo stesso e votato la cancellazione delle precedenti misure anti-LGBT ([29]: Die Zeit 2021, Lesben- und Schwulenverband (LSVD) 2021).
  • la Slovacchia è stata uno dei primi paesi a firmare la Convenzione nel 2011, ma nel 2019 il parlamento ha deciso di non ratificarla. Coloro che sono contrari alla Convenzione, fra cui alcuni esponenti della Chiesa cattolica, l’hanno criticata più volte negli ultimi anni perché propaganderebbe la cosiddetta “ideologia gender” e renderebbe possibile il “matrimonio gay” con il pretesto di voler difendere i diritti delle donne.  Pur riconoscendo che la protezione delle donne è una questione molto seria, trovano inaccettabili i tentativi di imporre l’“ideologia gender” come se fosse uno strumento in difesa delle donne [30]. 
  • l’Ungheria ha firmato la Convenzione nel 2014, ma nel 2020 il parlamento ha votato una risoluzione per chiedere al governo di non ratificarla. I motivi addotti sono la definizione di genere che viene data nella Convenzione e il riconoscimento della violenza di genere come forma di persecuzione durante le procedure di richiesta di asilo. Secondo il parlamento metterebbero in pericolo la cultura, le leggi, le tradizioni e i valori nazionali ungheresi. [31]. 
  • la Turchia è stata uno dei primi stati a ratificare la Convenzione di Istanbul nel 2011 e aveva già approvato una legge riguardante le relative disposizioni. Dieci anni dopo, il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan ha varato un decreto per ritirare il paese dalla Convenzione il primo luglio 2021, motivando la decisione con il fatto che la Convenzione normalizza l’omosessualità, in contrasto con i valori tradizionali della famiglia e della società turca [32].

Alcuni stati membri si sono poi opposti all’adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul, anche se la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ne aveva fatto una delle priorità del suo mandato.

Adesione dell’Unione europea alla Convenzione di Istanbul
Anche se la Convenzione di Istanbul è stata firmata a nome dell’Ue il 13 giugno 2017, non è ancora stata ratificata perché il Consiglio non ha ancora preso una decisione, vincolandola al voto unanime degli stati membri. La corte di giustizia europea (ECJ) ha fornito un parere sulla Convenzione di Istanbul il 6 ottobre 2021 chiarendo che l’Ue può aderirvi anche senza l’accordo unanime del Consiglio, perché la Convenzione copre ambiti di competenza sia dell’Ue che dei singoli stati membri, motivo per cui andrebbe firmata da entrambi. Tuttavia, la Corte ha ritenuto che il Consiglio non abbia bisogno dell’unanimità per decidere la conclusione della Convenzione, dato che la procedura di voto a maggioranza qualificata già stabilita dai Trattati (Articolo 218 TFEU) non può essere estesa ulteriormente.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato nella Newsletter Nr. 2/2021 dell’Osservatorio: “No al gender – sì a cosa di preciso? Panoramica del movimento anti-gender europeo”. La traduzione é stata curata da Laura Bortoluzzi (Voxeurop).

L’ Osservatorio per gli sviluppi sociopolitici in Europa è un progetto dell’Istituto per il lavoro sociale e l’educazione sociale finanziato dal ministero federale tedesco della famiglia, degli anziani, delle donne  e dei giovani (BMFSFJ). L’Osservatorio analizza gli sviluppi sociopolitici in Europa e il loro potenziale impatto sulla Germania. Lo scopo del nostro lavoro è mettere in collegamento i principali attori sociopolitici europei, promuovere lo scambio di competenze e favorire l’apprendimento reciproco.
La presente pubblicazione non rispecchia necessariamente l’opinione del governo federale della repubblica tedesca. Responsabili del contenuto sono le autrici
Marie Wittenius e Katrin Lange.

L’articolo rientra nel nostro dossier Attacco alla democrazia? I movimenti anti-gender in Europa.

 

Note

[*1] Il diritto alla salute sessuale e riproduttiva è sancito dalla legge internazionale ed europea sui diritti umani. Gli stati sono obbligati a fornire accesso a cure e servizi sanitari abbordabili e di buona qualità, come per esempio un’educazione e un’informazione sessuale completa, metodi contraccettivi moderni ed efficaci, aborto sicuro e legale e assistenza alla maternità. Ulteriori informazioni da parte della Commissaria per i diritti umani del consiglio d’Europa a questo link.

[*2] LGBTIQ* è l’acronimo di lesbica, gay, bisessuale, trans*, inter* e queer, che comprende quindi i vari orientamenti sessuali e le identità di genere. In questa newsletter viene usato il termine “LGBTIQ*”: le grafie diverse sono prese dai testi originali e sono impiegate in relazione agli specifici contesti.

[*3] Viene usato il termine “movimento anti-gender”, che è il più diffuso nei contesti internazionali.

[*4] Si veda il paragrafo sugli argomenti principali del movimento anti-gender.

[*5] La Strategia per la parità di genere 2020-25 e la Strategia per l’uguaglianza LGBTIQ 2020-2025 sono state pubblicate dalla commissione europea nel quadro dell’obiettivo prioritario della realizzazione di un’“Unione dell’uguaglianza”.

[*6] Le direttive antidiscriminatorie dell’Unione europea: Direttiva 2000/43/CE del Consiglio, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica; Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; Direttiva 2004/113/CE del Consiglio, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura; Direttiva 2006/54/CE del Consiglio, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego. Una quinta direttiva antidiscriminatoria, che tra le altre cose mira a uniformare il livello di protezione per le persone con disabilità, è bloccata al consiglio dell’Unione europea dal 2008. Coerentemente con il suo indirizzo politico, la Commissione di Ursula von der Leyen proporrà nuove misure legislative contro le discriminazioni.

[*7] Definizione: si veda il paragrafo L’“ideologia gender” come proiezione di un nemico comune.

 

Fonti

[1] Gärtner et al. (2020): Was der Gender Care Gap über Geld, Gerechtigkeit und die Gesellschaft aussagt. Forschungsbericht, pag. 8.

[2] Kuhar & Paternotte (2017): Anti-gender campaigns in Europe: Mobilizing against equality. Rowman & Littlefield, pag. 4.

[3] Korolczuk & Graff (2018): Gender as “Ebola from Brussels”: The anticolonial frame and the rise of illiberal populism. Journal of Women in Culture and Society, 43(4), pag. 797-821.

[4] Henninger et al. (2021): Einleitung: Mobilisierungen gegen Feminismus und ‚Gender‘. Erscheinungsformen, Erklärungsansätze und Gegenstrategien. Gender: Zeitschrift für Geschlecht, Kultur und Gesellschaft, Sonderheft 6, pag.10 e sg.

[5] Kuhar & Paternotte 2017: 9 e sg.

[6] Kuhar & Paternotte 2017: 255 e sg.

[7] Kuhar & Paternotte 2017: 13 e sg., Brinkschröder (2021): Rettungsinseln in “LGBT-freien Zonen”. In Anti-Genderismus in Europa. transcript-Verlag, pag. 298 e sg.

[8] Graff & Korolczuk (2022): Anti-Gender Politics in the Populist Moment. Taylor & Francis, pag. 5, Denkovski et al. (2021): POWER OVER RIGHTS Volume II, pag. 53 e sg.

[9] Kuhar & Paternotte 2017, pag. 13 e sg, Paternotte & Kuhar (2018): Disentangling and locating the „global right“: Anti-gender campaigns in Europe. Politics and Governance, 6(3), pag. 13 e sg.

[10] Kuhar & Paternotte 2018, pag. 7 e sg.

[11] Kováts & Põim (2015): “Gender as symbolic glue”. Budapest, Foundation for European Progressive Studies, pag. 27.

[12] Paternotte & Kuhar 2018, pagg. 7-8, Kuhar & Paternotte 2017, pagg. 1-16; pagg. 253-272, Brinkschröder 2021, pagg. 297-310, Kováts & Põim 2015, pag. 126 e sg., vgl. Friedrich-Ebert-Stiftung (2016): GENDER MATTERS! ANTIFEMINISM Newsletter on gender activities by the Friedrich-Ebert-Stiftung – No. 6.

[13] Kuhar & Paternotte 2017, pag. 7.

[14] Korolczuk & Graff 2018, pag. 811 e sg., Kováts & Põim 2015.

[15] Zacharenko (2019): The neoliberal fuel to the anti-gender movement. International Politics and Society (online).

[16] Zacharenko 2019.

[17] POLITICO: EU’s foreign policy gender plan faces resistance from Poland and Hungary (25.11.2020), cf. anche Kováts (2019): Neuen Mut statt neue Tabus – Dilemmata der Genderpolitik in der EU überwinden, Gunda Werner Institut, Heinrich Böll Stiftung (online).

[18] EURACTIV: Poland, Hungary block ‘gender equality’ from EU social summit (08.05.2021).

[19] Kuhar & Paternotte 2018, pagg. 9-10, Brinkschröder 2021, pag. 297 e sg.

[20] Sauer (2021): Affekte und Emotionen in Anti-Gender-Mobilisierungen. Blog interdisziplinäre Geschlechterforschung (online).

[21] Denkovski et al. 2021, pag. 53 e sg. 

[22] Kuhar & Paternotte 2017, pag. 260; pag. 264 e sg., Korolczuk & Graff 2018, pag. 798 e sg.

[23] Niemi et al (2020): International Law and Violence Against Women: Europe and the Istanbul Convention. Routledge, pag. 82.

[24] Convenzione di Istanbul articolo 4, comma 3.

[25] L’Osservatorio ha analizzato l’implementazione della Convenzione di Istanbul in vari stati membri dell’Ue: Lange et al. (2020): Violence against Women – On the implementation of the Istanbul Convention in Denmark, Finland & Austria, Working Paper No 21, Lesben- und Schwulenverband (LSVD): Istanbul-Konvention: Verhütung und Bekämpfung von Gewalt gegen Frauen (online), Council of Europe: Council of Europe Convention on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence: Questions and answers (online).

[26] Online seminar on the Backlash against Women’s Rights and the Istanbul Convention (Video available on Youtube), Niemi et al 2020: 260, Council of Europe (2021): Conference Report – Gender equality and the Istanbul Convention: a decade of action, pag. 17 e sg. (online).

[27] Human Rights Watch (2018): Speak Out to Protect Bulgaria’s Women (online), Darakcho (2019): “The Western Feminists Want to Make Us Gay”: Nationalism, Heteronormativity, and Violence Against Women in Bulgaria in Times of “Anti-gender Campaigns”. Sexuality & Culture 23(4), pag. 1209.

[28] Euronews: Istanbul Convention: Poland moves a step closer to quitting domestic violence treaty (01.04.2021), Balkan Insight: Poland’s Replacement for Istanbul Convention Would Ban Abortion and Gay Marriage (15.03.2021).

[29] Die Zeit: Polnische Region hebt Status als „LGBT-freie Zone“ auf (23.09.2021), Lesben- und Schwulenverband (LSVD): „LSBTI-freie Zonen“ in Polen - Steigender Hass im Nachbarland (online), Brinkschröder 2021, pagg. 297-310.

[30] EURACTIV: Slovakia still opposes EU accession to Istanbul Convention preventing violence against women (29.11.2019), Nachrichtendienst Östliche Kirchen: Slowakei: “Istanbul-Konvention” wird nicht ratifiziert (19.03.2021).

[31] Index: Hungarian Parliament refuses to ratify the Istanbul Convention for its asylum provisions and inclusion of gender (05.05.2020). 

[32] Deutsche Welle: Turkey to pull out of Istanbul Convention on violence against women (30.06.2021), BBC: Turkey Erdogan -  Women rise up over withdrawal from Istanbul Convention (26.03.2021)".