“Ci dobbiamo domandare perché le posizioni si siano fossilizzate fino a questo punto.”

Daniel Cohn-Bendit ci parla delle varie sfaccettature dell’antisemitismo e del razzismo nell’Europa di oggi, della profonda spaccatura che attraversa le nostre società pluraliste e della necessità di riconoscere il dolore della controparte.

Marc Berthold ha svolto questa intervista a novembre 2023.

Marc Berthold: In che misura il 7 ottobre ha segnato una cesura per te e in generale per le società europee?

Daniel Cohn-Bendit: Il 7 ottobre ha segnato una cesura per tutti quanti. Nessuno avrebbe mai immaginato che si potesse verificare un pogrom come quello. Ha segnato una cesura per tutta l’Europa e per gli ebrei d’Europa, anche se in modi diversi. Gli ebrei d’Europa sono stati costretti a ricordarsi della loro identità, che fino a quel momento non costituiva un pensiero costante nella loro vita quotidiana. Per quanto riguarda l‘Europa, invece, questo avvenimento ha segnato una cesura perché ha costretto le società europee a rendersi conto delle profonde divisioni che le attraversano. Non mi aspettavo che i dibattiti che si sono scatenati sul rapporto con Israele, sull‘antisemitismo, sulla Palestina e sulle/sui palestinesi fossero così veementi.

È possibile che un’opera di sensibilizzazione spinga le società pluraliste a combattere unite contro razzismo e antisemitismo?

C’è da dire che la profondità della spaccatura che attraversa le nostre società è spaventosa: basti pensare che, in occasione di una grande manifestazione tenutasi il 25 novembre, giornata di lotta contro la violenza sulle donne, alcune femministe che invitavano ad esprimere solidarietà alle donne violentate in Israele sono state allontanate dal corteo. Parte della società europea rifiuta di vedere le sofferenze provate da chi vive in Israele in seguito al 7 ottobre. Trovo altrettanto spaventoso il fatto che molti palestinesi, anche nel privato, si rifiutino di condannare Hamas. Sono convinto che superare l’antisemitismo sia possibile soltanto a patto di avanzare una proposta concreta di risoluzione sul campo. E non può trattarsi che della soluzione dei due stati.

Un’altra cosa che dici è che per superare l’antisemitismo e il razzismo bisogna che ciascuno sia in grado di cogliere i problemi degli altri.

SÌ. Da ebreo o israeliano devo essere capace di cogliere i problemi dei palestinesi, devo capire cosa ha significato per loro la Nakba seguita alla fondazione dello stato d’Israele nel 1948. Da palestinese invece devo essere capace di comprendere il motivo per cui, dopo i pogrom dell’Europa orientale e la Shoah, è nato lo Stato d’Israele. Solo se tenteremo di capire il punto di vista della controparte potremo colmare il divario che c’è tra noi. Se questo non accadrà, allora la lotta contro l’antisemitismo, di stampo cristiano o musulmano che sia, sarà una battaglia di lungo periodo. Diceva Hannah Arendt: “Dall‘antisemitismo non si è al sicuro se non sulla luna”. E forse a breve neppure lì, visto che ci vuole andare Elon Musk.

Riconoscere il dolore altrui: perché è così difficile per entrambe le parti, anche qui in Europa?

Beh, è strano: in Yemen sono state uccise centinaia di migliaia di musulmani, tra cui molte donne e molti bambini. Nella primavera del 2015 in Siria l’ISIS e Assad hanno distrutto un campo profughi palestinese facendo migliaia di morti. Nessuna reazione. Ma se ad uccidere i musulmani o i palestinesi sono gli israeliani, allora ecco che scatta l’indignazione. Il motivo riguarda anche le categorie di riferimento della sinistra in Europa: “antiimperialismo” e “anticolonialismo”, che affondano le loro radici negli anni 50 del secolo scorso.

In che modo l’applicazione di queste categorie potrebbe farsi meno rigida?

È evidente che il dibattito in corso pone una questione alla sinistra: che significato diamo alla solidarietà antiimperialista? Noi, la sinistra, siamo stati solidali con Cuba, con Fidel Castro e Che Guevara. E che ne è stato di quell’esperienza? Ha dato vita a una dittatura. E il Vietnam, i vietcong? Che ne è stato? Dittatura. E il Nicaragua? Dittatura. Insomma: per tutte le sinistre, la sfida è quella di interrogarsi su questa solidarietà con le lotte di liberazione armate. Dove abbiamo sbagliato e perché? Le cose sarebbero potute andare in altro modo? È a questo proposito che consiglio di rileggere la disputa tra Camus e Sartre: anche il movimento di liberazione algerino segue questo schema, che poi è quello che ha portato alla dittatura.

Conosci molto bene la sinistra tedesca e quella francese. Vedi delle differenze nei loro atteggiamenti verso il conflitto israelo-palestinese?

Credo che i numeri dell’antisionismo radicale, capace di sfociare anche nell’antisemitismo, siano più consistenti in Francia; in Germania è la storia stessa a porgli dei limiti. A livello strutturale però i problemi sono gli stessi. Ho l’impressione che gli ebrei occupino nella sinistra – così come nella società tutta – una posizione particolare, perché sono difficilmente inquadrabili. A livello sotterraneo credo sia diffuso un certo sentimento: gli ebrei sono un fattore di disturbo. Parte della società penso provi addirittura una sorta di gioia segreta e inespressa: gli ebrei stanno sempre lì a darci lezioni e ora tocca a loro fare i conti con le sofferenze che infliggono agli altri.

Come fare a convincere la popolazione araba e musulmana a combattere insieme l’antisemitismo e il razzismo senza farla sentire sotto attacco, vittima di un clima di sospetto generalizzato?

II punto non è far sì che la popolazione araba e musulmana si schieri con Israele. Dobbiamo riconoscere che c’è una spaccatura profonda. Tanti cuori arabi, lo vediamo, si sono induriti nei confronti della sofferenza degli ebrei. E dobbiamo capirne il motivo. Io credo che questo indurimento derivi da un senso di inferiorità che il mondo musulmano prova nei confronti della modernità, dalla sensazione di vivere sotto il giogo di un “potere coloniale”. Anche se, nel caso di Israele, ritengo quest’idea del tutto priva di senso.

Che fare dunque?

Ci dobbiamo domandare come rendere possibili altre forme di dibattito e discussione nella quotidianità tedesca o francese, come rendere possibili altre forme di coinvolgimento della popolazione araba e musulmana. Ad entrambe le parti risulta difficile articolare il loro sentirsi partecipi, sconvolte ed impotenti. Mi rendo conto che anche nel privato pochissimi musulmani sono disposti ad esprimere solidarietà, mentre dall’altro lato soltanto una piccola minoranza di ebrei riesce ad esprimere l’orrore e la sensazione di impotenza di fronte a quanto sta accadendo a Gaza. Dobbiamo abbattere questi muri, dobbiamo chiederci perché le posizioni si siano fossilizzate fino a questo punto. Altrimenti non ne usciremo.

La destra in Europa parla unicamente di un “antisemitismo d’importazione”. E il suo, di antisemitismo, se lo è dimenticato?

C’è da dire che le nuove leader della destra, Giorgia Meloni e Marine Le Pen, sono dotate di grande scaltrezza. E forse sono anche onestamente convinte di aver superato l’antisemitismo che ha caratterizzato la loro storia, anche se è ovvio che il filo-semitismo di destra altro non è che un ottimo strumento per veicolare un’islamofobia radicale. Ma certamente in quei partiti anche l’antisemitismo resta presente. È interessante notare che alla grande manifestazione parigina contro l’antisemitismo dietro Marine Le Pen c’erano soltanto due o tre file di sostenitori: la stragrande maggioranza degli iscritti al “Rassemblement National” non c’era. Significa che gran parte della destra francese, come anche di quella italiana e tedesca, è tuttora antisemita.

Quale potrebbe essere il ruolo dell’UE nel combattere l’antisemitismo e nel difendere le società pluraliste e aperte agli immigrati?

A questo proposito ritengo che i piani siano tre. Il primo riguarda l’atteggiamento nei confronti del conflitto israelo-palestinese, rispetto al quale l’UE dovrebbe sostenere strenuamente la soluzione dei due stati e fare di tutto perché venga messa in pratica. Il secondo piano, invece, riguarda le politiche relative all’immigrazione. L’UE deve chiarirsi le idee, distinguendo tra asilo e migrazione economica; bisogna che legiferi anche per quanto riguarda l’immigrazione. Le nostre economie, le aziende grandi e piccole, l’artigianato e l’agricoltura hanno bisogno di forza lavoro il cui approvvigionamento andrebbe organizzato a livello europeo. Se ce ne occupassimo, potremmo anche discutere in modo diverso della questione dei richiedenti asilo, che di per sé non possono essere gestiti tramite un sistema di quote. Se non lo faremo non usciremo mai dai dibattiti falsati che si conducono a livello europeo.

Dicevi che i piani sono tre...

Sì. Il terzo è quello dell’onestà intellettuale. In Francia è in corso un aspro dibattito sulla possibilità di legalizzare il soggiorno di chi è entrato illegalmente nel paese. Chi è contrario a quest’eventualità sostiene che costituirebbe un pull-factor, spingendo sempre più persone a venire in Francia. La priorità, dicono, è espellerne di più. Ma davvero c’è chi crede che sia possibile espellere 300.000 persone? Certo che no! Ecco che si rivela la disonestà intellettuale di questa argomentazione. Può darsi che le ultime decisioni prese dal governo tedesco rendano possibili 600 espulsioni in più ogni anno: questo dovrebbe farci capire le dimensioni del problema. I paesi che dovrebbero riaccogliere queste persone mica collaborano! E poi, per ragioni umanitarie, in molti paesi non vogliamo né possiamo rimandare nessuno. Sono questioni che vanno discusse con onestà intellettuale per rendere possibile un dibattito più razionale sulla questione dei migranti e dei rifugiati.


Pubblicista e politico franco-tedesco, Daniel Cohn-Bendit è membro di Alleanza 90/I verdi e di Europe Écologie-­Les Verts. Nella sua lunga carriera di deputato al Parlamento Europeo si è occupato soprattutto di questioni relative all’ecologia e alle politiche progressiste. Ha sempre sostenuto una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese.

Marc Berthold dirige l‘ufficio di Parigi della fondazione Heinrich-Böll. Dal 2011 al 2013 ha diretto l’ufficio israeliano della fondazione a Tel Aviv..


Tradotto da Susanna Karasz | Voxeurop

La versione originale di questo articolo è stato pubblicato qui: www.boell.de

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