Il 19 aprile del 1943 gli Ebrei condannati a morte nel ghetto di Varsavia si sono ribellati, ingaggiando una lotta eroica e senza precedenti con gli occupanti tedeschi. La commemorazione dell’ottantesimo anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia si avvicina. Joanna Maria Stolarek, direttrice dell’ufficio di Varsavia della Heinrich Böll Stiftung, ha conversato con Zygmunt Stępiński, direttore del Museo della storia degli Ebrei polacchi, il POLIN di Varsavia, della commemorazione, della natura del ricordo e del messaggio universale trasmesso dalla rivolta e dalla sua commemorazione.
Joanna Maria Stolarek: la rivolta del ghetto di Varsavia è avvenuta ottant’anni fa. Questo è un anniversario speciale. Come si dovrebbe commemorare?
Zygmunt Stępiński: la rivolta dovrebbe essere ricordata sempre. Questo anniversario è molto importante non solo per gli Ebrei che vivono in Polonia, ma anche per quelli che vivono in Israele e per tutta la diaspora. E anche per i Polacchi. È stata la prima rivolta armata degli Ebrei segregati nei ghetti, condannati a morire di fame, di malattie o per i crimini commessi là dentro. Condannati anche a essere trasportati a Treblinka, il campo della morte, dove venivano assassinati il giorno stesso del loro arrivo e i loro corpi venivano bruciati. MI permetta di ricordarle che la popolazione del ghetto di Varsavia ha raggiunto un picco massimo di 450.000 persone.
È stata anche la prima rivolta armata dell’Europa occupata.
Dobbiamo ricordarla perché la Shoah ha messo fine a quasi mille anni di storia della diaspora ebraica in Polonia. Quando è iniziata la Seconda Guerra mondiale, la comunità ebraica polacca contava più di tre milioni e mezzo di persone. I sopravvissuti all’occupazione e all’Olocausto in Polonia sono stati 50.000, mentre circa 250.000 Ebrei sono sopravvissuti alla guerra in Unione sovietica. Hanno iniziato a rientrare in Polonia dopo il 1945, hanno trovato solo rovine e macerie, e non hanno potuto tornare a vivere nelle loro case, che erano già state occupate da altre persone.
Le dimensioni di questo genocidio sono inimmaginabili. Facciamo riferimento a numeri astratti perché è molto difficile figurarsi la solitudine di un individuo, visualizzare e sentire la dimensione di questa tragedia, l’esperienza delle persone rinchiuse nei ghetti di tutto il paese. Per più di due anni queste persone hanno vissuto con la consapevolezza di essere arrivate alla fine, senza nessuna speranza di essere salvate.
Quando è iniziata la rivolta, nel ghetto di Varsavia c’erano 50.000 Ebrei. Erano civili. Non facevano parte di un’organizzazione armata. Ma hanno combattuto anche loro, per ogni minuto, ogni ora e ogni giorno delle loro vite. Il comportamento di questi civili, che si erano preparati a lungo per la sopravvivenza, che hanno rifiutato di obbedire agli ordini dei Tedeschi e hanno costruito bunker e rifugi per cercare di salvare la propria vita e quella delle persone a loro care, è stato assolutamente notevole. Una dimostrazione di estremo eroismo.
Per anni abbiamo ripetuto la frase “mai più”. E adesso, a poche centinaia di chilometri da Varsavia, in Ucraina, la Russia sta conducendo una guerra terribile contro la nazione e lo stato ucraini. Si commettono ancora genocidi. Non resteremo indifferenti! Questo è l’undicesimo comandamento, quello che Marian Turski, sopravvissuto ai campi di concentramento, testimone di quelle vicende tragiche e presidente del comitato consultivo del Museo, ha affidato al mondo intero.
Dopo che Hitler è arrivato al potere in Germania, gli Ebrei sono stati gradualmente privati, giorno dopo giorno, di tutti i loro diritti, mentre il mondo assisteva indifferente. Sappiamo che cosa è accaduto dopo. Per questo è importante non restare indifferenti davanti ai crimini commessi oggi dai Russi in Ucraina. Ma il male si manifesta anche in altre parti del mondo e, da una prospettiva individuale, molto spesso anche vicino a noi, persino nella strada in cui viviamo.
Dovremmo ricordare, certo. Ma come? Chi decide che aspetto deve assumere questo ricordo? Qual è la cultura di questo ricordo? Come dovremmo ricordare, sapendo che alcuni dei testimoni oggi sono ancora vivi ma presto non ci saranno più?
I testimoni sono sempre di meno. È davvero un piccolo gruppo di persone. Erano bambini quando c’è stata la Shoah. Alcuni si sono salvati perché sono stati portati fuori dal ghetto e affidati a famiglie che vivevano nella parte ariana della città, che si sono occupate di loro e li hanno aiutati a sopravvivere. Molti pochi sono sopravvissuti all’Olocausto all’interno del ghetto o sono stati portati fuori dopo l’inizio della rivolta. Una di loro è Krystyna Budnicka, unico membro della famiglia Kuczer a sopravvivere alla Shoah. I suoi incontri con i giovani sono molto apprezzati. Quando c’è lei, il nostro auditorium è sempre strapieno. Questi eventi sono molto importanti. Sono le ultime occasioni che abbiamo per ascoltare un sopravvissuto all’Olocausto raccontare la propria esperienza personale.
Da un punto di vista più generale, quello che conta è la posizione di ciascuno di noi. Per questo abbiamo lanciato la campagna dei narcisi che quest’anno, per l’undicesima volta, servirà a ricordare che cosa è stata la rivolta del ghetto di Varsavia. Nel 2013 i volontari erano poche decine, oggi sono più di tremila. Dieci anni fa erano in pochi a conoscere la storia della rivolta del ghetto di Varsavia. Oggi la conosce più del 90 per cento degli abitanti della città, lo conferma il sondaggio del Warsaw Barometer.
Mi permetta di porle di nuovo la domanda: come dovremmo ricordare? Qual è il modo corretto di farlo?
Il modo migliore di ricordare è attraverso l’educazione. Dovremmo tornare alle fonti, organizzare incontri con i sopravvissuti all’incubo della Shoah, all’isolamento del ghetto e alla rivolta stessa. Ce ne sono sempre meno, ma molti sono riusciti a registrare le loro testimonianze, che hanno un valore educativo unico. L’educazione, compresa quella sull’Olocausto, è una delle missioni fondamentali del POLIN. L’anno scorso, più di mezzo milione di allievi delle scuole di tutta la Polonia ha preso parte alle lezioni e ai laboratori organizzati all’interno del percorso espositivo.
La maggior parte delle società, nei paesi democratici sviluppati, vive in prosperità. Alcuni se la cavano meglio, altri peggio, ma in generale l’Europa ha vissuto in pace per molti anni. Più di trent’anni fa c’è stato un genocidio in Bosnia Erzegovina. Ora lo stesso sta accadendo in Ucraina e tutto il mondo osserva. “Mai più” avevamo detto, non è vero? Dobbiamo continuare a spiegare ai giovani le possibili conseguenze dell’indifferenza e il fatto che la pace non si può dare per scontata. In futuro, questi ragazzi saranno in grado di condizionare le azioni dei loro governi, delle loro società e delle loro nazioni. Vogliamo che possano imparare delle lezioni dalla storia dell’Olocausto come dai genocidi nei Balcani e in Ucraina.
Lei parla del contesto europeo e globale della cultura del ricordo. Pensa che la Polonia debba avere un ruolo specifico nel dare forma alla cultura del ricordo? Mi riferisco all’anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia.
Possiamo ripercorrere il modo in cui, nel corso degli anni, sono stati celebrati gli anniversari della rivolta del ghetto di Varsavia. Nel 1946 è stato inaugurato il primo monumento. Era molto modesto, aveva la forma di un tombino, perché gli Ebrei avevano provato a fuggire dal ghetto attraverso i condotti fognari. Nel 1948 è stato eretto uno dei monumenti più noti al mondo: il monumento agli eroi del ghetto di Nathan Rapoport. A ciò è seguito un vergognoso periodo di silenzio. Solo gli Ebrei celebravano gli anniversari, i rappresentanti delle poche organizzazioni ebraiche e i loro amici. Dobbiamo ricordare che la maggior parte degli Ebrei miracolosamente scampati alla guerra è emigrata dalla Polonia in varie ondate successive. Così è stato anche per i loro figli. L’ultima ondata di emigrazione è stata conseguenza delle campagne antisemite del 1968.
Nel 1983 sono stati i comunisti ad avere l’idea di organizzare un evento ufficiale per commemorare il quarantesimo anniversario della rivolta. Hanno invitato Marek Edelman, l’ultimo leader vivente della rivolta. Lui naturalmente si è rifiutato di partecipare, perché molte persone legate all’opposizione democratica polacca all’epoca erano in stato di fermo o in carcere. Gli attivisti dell’opposizione allora hanno organizzato un evento commemorativo non ufficiale, al quale Marek Edelman ha partecipato, facendo un discorso meraviglioso.
Solo alla fine degli anni ‘80 c’è stata una svolta, così radunarsi davanti al monumento è diventata una tradizione. Marek Edelman e i suoi amici e colleghi appartenenti all’opposizione democratica partecipavano ogni volta, assieme a un numero sempre crescente di cittadini di Varsavia. Poi una donna sconosciuta ha offerto a Marek Edelman un mazzo di fiori gialli e da quel giorno in poi, ogni anno, lui ha deposto fiori gialli davanti al monumento degli eroi del ghetto. Così è nata una nuova tradizione. In passato solo gli Ebrei si raccoglievano davanti al monumento, tra cui i miei compagni e le loro famiglie. Questa tradizione è stata brutalmente interrotta nel 1968, quando più di 13.000 Ebrei polacchi che avevano cercato di rifarsi una vita nella Polonia del Dopoguerra sono stati costretti a lasciare il paese a causa della politica antisemita del governo. Solo verso la fine degli anni ‘80, quando le autorità comuniste hanno permesso ai rifugiati di venire in Polonia per partecipare alle cerimonie di commemorazione, abbiamo di nuovo potuto raccoglierci davanti al monumento.
In seguito lo Stato, rappresentato dai suoi presidenti, ha iniziato a organizzare le cerimonie, in special modo quelle decennali. Da allora in poi sono stati invitati, e hanno partecipato, i rappresentanti delle principali autorità, comprese quelle tedesche, cosa di eccezionale importanza.
Un gesto incredibilmente simbolico è stata la visita del cancelliere tedesco Willy Brandt nel dicembre del 1970. Brandt si è inginocchiato davanti al monumento degli eroi del ghetto e ha chiesto scusa. Così i Tedeschi hanno accettato la loro responsabilità. Willy Brandt sarà ricordato per essere stato il primo politico tedesco, e a lungo l’unico, ad aver avuto il coraggio di fare una dichiarazione simile.
Oggi le cerimonie commemorative davanti al monumento di Rapoport sono organizzate ogni anno dallo Stato e sono accompagnate da eventi commemorativi non ufficiali a cui partecipano centinaia di persone di tutte le età. Il nostro museo, come ho già detto, organizza la Campagna dei narcisi gialli, che coinvolge milioni di persone in Polonia e in altri paesi, compresi Stati Uniti, Canada e Israele. I narcisi vengono distribuiti al Parlamento europeo e inviati alle missioni diplomatiche. Vogliamo che il ricordo della rivolta rimanga vivo al di fuori della Polonia, perché porta con sé un messaggio profondamente umanitario.
Che cosa si aspetta dai Tedeschi, per quanto riguarda la commemorazione della rivolta del ghetto di Varsavia?
Mia figlia, che ha lasciato la Polonia molto tempo fa, ha sposato un Tedesco. Vive a Francoforte e ha due figli. Quando sono andato per la prima volta a trovarla a Francoforte, mi ha portato a vedere una mostra che trattava la responsabilità tedesca nella Seconda Guerra mondiale. Era focalizzata in particolare sulla IG Farben, la cui sede principale oggi ospita l’Università Goethe. Oggi tutti sanno che cosa faceva questa azienda durante la guerra, che cosa produceva e dove e a chi venivano consegnati i suoi prodotti. Mia nipote ha visto la mostra a tredici anni. È una ragazzina molto in gamba e da quel momento in poi si è interessata alla Shoah. Credo che abbia letto tutti i libri per ragazzi sull’argomento. Un anno fa mi ha telefonato e mi ha detto: “Nonno, vorrei chiederti un favore. Potresti farmi incontrare Marian Turski?”. Ho chiamato Marian, di cui sono amico da anni, e gli ho detto che mia nipote voleva incontrarlo per avere da lui informazioni di prima mano. Naturalmente ha accettato. Quando si sono visti, ha risposto a tutte le sue domande. Il loro incontro sarebbe dovuto durare un’ora, invece ne è durate cinque! Marian Turski mi ha detto che è stato uno degli incontri più importanti della sua vita. L’ultima domanda gliel’ha fatta mio nipote: “Signor Turski, cosa farebbe se incontrasse dei veri antisemiti? Ce ne sono ancora in giro”. Marian gli ha raccontato di quando la BBC gli ha chiesto di incontrare tre leader di partiti nazisti – uno britannico, uno tedesco e uno italiano – all’ex campo di concentramento di Auschwitz. Lui ha accettato. Ha raccontato che, per la prima volta in vita sua, non ha saputo come reagire quando un neonazista italiano gli ha chiesto: “Che prove ha del fatto che suo fratello e suo padre siano stati uccisi ad Auschwitz? Potrebbero essere fuggiti, potrebbero essere stati salvati, potrebbero essere sopravvissuti. Lei non ha prove del fatto che siano stati veramente uccisi ad Auschwitz”. A quel punto Marian si è alzato e se ne è andato.
Le ho raccontato questa storia solo per farle capire che, per i giovani, parlare con un sopravvissuto, in Polonia e probabilmente anche in Germania, è un’esperienza incredibilmente potente. Marian Turski è stato isolato nel ghetto di Litzmannstadt per cinque anni. Più tardi è stato rinchiuso ad Auschwitz, da dove solo lui e sua madre, di tutta la famiglia, sono usciti vivi, e infine ha partecipato alle marce della morte. Quando Marian parla con i bambini, non racconta solo quello che gli è successo durante la Shoah. Fa molto di più. È un oratore molto abile e trova le parole giuste per stimolare l’immaginazione e la sensibilità dei bambini.
Ora però devo rispondere alla sua domanda su come ricordare e su che cosa mi aspetto dalla Germania o da qualunque altro paese. Beh, educazione, educazione e ancora educazione. Non c’è altro modo per mostrare o descrivere quello che è accaduto durante la Shoah. Specialmente ora che tutto è stato studiato ed esposto in articoli scientifici largamente disponibili. Serve solo la buona volontà.
Mi ha parlato di Marian Turski, dell’incontro con sua nipote e del fatto che il messaggio diretto trasmesso da un sopravvissuto ha un impatto molto diverso rispetto alla lettura di un libro o alla visione di un film. Che cosa faremo quando non ci saranno più sopravvissuti? Che cosa verrà dopo?
Le nuove tecnologie fanno passi da gigante. Da sei mesi stiamo lavorando a un avatar di Marian Turski. Abbiamo tentato a lungo di convincerlo, e finalmente ha accettato di farsi registrare. Il suo avatar sarà disponibile nella galleria “Eredità” del POLIN. I visitatori potranno fargli migliaia di domande. Un software dotato di una grande velocità di calcolo risponderà automaticamente.
Significa che userà l’intelligenza artificiale?
Esatto. Può sostituire Marian, che ancora partecipa a quegli incontri di persona? No, non può. Sostituirà Krystyna Budnicka? No. Sostituirà la mia madre adottiva, che per dieci anni ha viaggiato fra Varsavia e Łódź per incontrare gli studenti americani che ogni anno venivano a Łódź con i loro insegnanti per ascoltare i suoi racconti della vita nel ghetto? No.
Sa qual è la cosa importante? Né lei né Marian Turski nutrono sentimenti di odio. Non hanno mai detto di odiare i Tedeschi. Odiano solo quei Tedeschi che li hanno costretti a sopportare un destino tanto tragico. Questo non si applica alle nuove generazioni. Sono passati ottant’anni. Dobbiamo parlarne e impegnarci a costruire ponti e comprensione reciproca.
Ha parlato di educazione. In Germania, ma non solo in Germania, le due rivolte, quella del ghetto di Varsavia e quella di Varsavia vengono spesso confuse l’una con l’altra. L’educazione è fondamentale proprio per prevenire simili errori, giusto?
In effetti a Varsavia ci sono state due rivolte a distanza di poco più di un anno. Per questo a volte Varsavia viene chiamata la città delle due rivolte. E si può generare confusione. Non le so dire se anche i giovani polacchi (specialmente quelli che non vivono a Varsavia) facciano confusione. Sono però sicuro che la conoscenza di quella guerra crudele e dell’Olocausto sta diventando più vaga. Dopotutto sono passati ottant’anni. Quando andavo a scuola io, probabilmente non sapevo granché della storia dell’Ottocento, non le pare? Certo, c’è una differenza fondamentale: è necessario che la rivolta del ghetto di Varsavia sia ricordata. Per questo spero che i Tedeschi visitino sia il POLIN che il Museo della rivolta di Varsavia. Se lo faranno, credo che capiranno bene la differenza.
Tornando alle rivolte, l’unica cosa che quei due tragici eventi hanno in comune è la città in cui si sono svolti. Non si può paragonare la situazione degli Ebrei, che fin dal 1940 erano rinchiusi nel ghetto e venivano sistematicamente sterminati, con quella dei Polacchi prima dello scoppio della rivolta. Sia chiaro: anche la situazione dei Polacchi che vivevano “dall’altra parte del muro” era molto difficile. Molti di loro venivano arrestati e torturati, c’erano rastrellamenti quotidiani e frequenti esecuzioni pubbliche. I Polacchi soffrivano terribilmente. Tuttavia, la Polonia aveva un governo attivo in esilio a Londra e all’interno del paese l’Armia Krajowa era potente. Per questo hanno deciso di dare inizio alla rivolta nell’agosto del 1944, prima dell’inizio dell’offensiva dell’Armata Rossa. Ricordiamoci che la rivolta di Varsavia è iniziata perché i suoi leader speravano di ottenere una vittoria strategica. Gli Ebrei nel ’43 non hanno combattuto per ottenere una vittoria in senso militare. Non avevano alcuna possibilità.
Ciononostante, le conseguenze dei due eventi sono state simili. Durante la rivolta del ghetto di Varsavia, quasi tutti gli Ebrei sono stati uccisi sul posto o nel campo di sterminio di Treblinka. Pochi sono sopravvissuti. In termini militari, nel 1943 non c’era niente da vincere e niente è stato vinto. È stato un trionfo dell’umanità, una rivolta di condannati a morte. Durante la rivolta di Varsavia sono morte circa 200.000 persone, alcune delle quali proprio all’inizio e in circostanze assolutamente crudeli. Le unità delle SS comandate da Oscar Dirlewanger hanno brutalmente assassinato, fra gli altri, 30.000 civili che non avevano preso parte alla rivolta.
Dopo la rivolta del ghetto di Varsavia, l’intero quartiere ebraico nel quale era stato istituito il ghetto chiuso è stato distrutto e dato alle fiamme casa per casa. Durante e dopo la rivolta di Varsavia l’intera città è stata completamente distrutta. Ci sono quindi anche delle somiglianze. Tuttavia, si è trattato di due rivolte completamente diverse. Capisco coloro che vogliono trovarvi delle somiglianze, ma è importante che non si perdano di vista le differenze.
Capisco, assolutamente. Qual è il concetto guida, suo o del museo, per la commemorazione dell’ottantesimo anniversario della rivolta del ghetto di Varsavia? Che cosa intendete mostrare?
Abbiamo deciso che l’evento principale del programma del POLIN per il 2023 sarà una mostra temporanea dedicata alla rivolta. Abbiamo invitato la professoressa Barbara Engelking del Centro polacco per la ricerca sull’Olocausto, una delle maggiori esperte mondiali di storia del ghetto di Varsavia e della sua rivolta, a lavorare con noi sul progetto. Ci ha proposto la sua idea della mostra. Abbiamo deciso di dedicarla ai civili, quegli Ebrei che hanno deciso di restare nel ghetto, in condizioni estremamente difficili, in isolamento, senza alcun aiuto esterno, condannati al proprio destino e senza alcuna speranza di sopravvivere. Si nascondevano perché non volevano essere deportati a Treblinka. La loro resistenza passiva è stata una forma di guerra. Li trattiamo allo stesso modo dei combattenti. Si è trattato di una lotta per la sopravvivenza, per la vita, per un giorno in più, una settimana in più, forse un po’ di tempo in più. Per questo la riteniamo tanto importante.
La storia e lo sviluppo della rivolta del ghetto di Varsavia sono ben documentati. Tuttavia, per quanto riguarda i civili, il cui destino abbiamo deciso di illustrare nella mostra, abbiamo potuto servirci solo di qualche brandello di informazione, dei pochissimi materiali creati all’interno del ghetto che si sono miracolosamente conservati. Abbiamo anche utilizzato resoconti scritti durante la rivolta da Ebrei che si nascondevano nella parte “ariana” della città e testimonianze scritte e orali di coloro che stavano dentro al ghetto e sono sopravvissuti. Non c’è molto a dire il vero. Su queste basi, sapendo come gli Ebrei si sono preparati alla rivolta, come hanno costruito bunker con accesso all’acqua, all’elettricità e all’aria esterna, abbiamo costruito il racconto del tragico destino della popolazione civile.
Vivo a Varsavia da 76 anni. Ho saputo di essere ebreo a un’età relativamente tarda. Avevo visto molte volte il monumento agli eroi del ghetto. Mi creda, per molti anni ne ho conosciuta solo la parte frontale, quella che oggi è rivolta verso il POLIN. L’intera composizione del museo, dei suoi interni e dei suoi spazi esterni, così come l’ha concepita il suo architetto, Rainer Mahlamäki, è ispirata al monumento che commemora gli eroi della rivolta. I combattenti guardano il museo. Il Museo POLIN, come diciamo spesso, è un museo di vita. Racconta i mille anni di storia degli Ebrei che hanno vissuto sul suolo polacco e ha una grande finestra che si apre sul parco. Che tra l’altro è il parco che ospita il monumento a Willy Brandt.
L’altro lato del monumento – “l’altro”, come lo chiamiamo noi – racconta la storia dei civili. Ogni giorno, quando vengo al lavoro, passo davanti al monumento e guardo le persone ritratte che vengono trascinate verso la morte. Un giorno sono passato mentre nevicava. Ho preso la macchina fotografica e ho scattato una fotografia. La neve si era posata ai piedi delle figure rappresentate su quel lato del monumento. I fiocchi erano tanto grossi da essere visibili nella fotografia. Penso che sia l’immagine quintessenziale di quei civili e delle condizioni in cui hanno vissuto e sono stati trascinati alla Umschlagplatz. Per essere trasportati fino a Treblinka su carri bestiame. Per essere messi a morte nelle camere a gas.
Comunque, questa idea di Nathan Rapoport, l’autore del monumento, aveva una giustificazione storica. Mi permetta di citare la mia collega che lavora al museo, la dottoressa Renata Piątkowska:
“La parete orientale del monumento, con il bassorilievo in pietra ‘Marcia verso la morte’, rappresenta la parte più importante della galleria ‘Gli anni del dopoguerra’ nel percorso espositivo del museo POLIN. Vi è esposta una copia del bassorilievo originale di Rapoport, assieme a fotografie tratte da archivi privati che mostrano quanto questo lato del monumento fosse importante per i sopravvissuti, perché ritrae il ‘popolo di Israele’ che parte per l’ultimo viaggio verso la morte, verso il nulla.
Nella sua composizione, Rapoport ha fatto un riferimento diretto all’iconica opera ‘Golus’ di Samuel Hirszenberg. Quest’ultima è stata ispirata dalla scena degli Ebrei in marcia raffigurata sull’arco di Tito, eretto a Roma dopo l’81 d.C. a seguito della vittoria dei Romani sugli Israeliti. Mostra gli Israeliti sconfitti che fuggono, portando con sé diversi oggetti (fra cui una menorah a sette bracci), dal Tempio di Gerusalemme, distrutto dall’esercito romano. Quella della distruzione del Tempio è una data simbolica: segna l’inizio della diaspora, ovvero la dispersione degli Ebrei costretti a lasciare Gerusalemme.
L’opera di Hirszenberg ‘Golus’, completata nel 1904, illustra un’altra fase del viaggio perenne e solitario degli Ebrei, costretti a lasciare la loro patria. È diventata presto un’icona internazionalmente riconosciuta del destino degli Ebrei.
Il modo in cui Rapoport ha interpretato il suo compito è simile a quello di Hirszenberg. Come ha dichiarato lui stesso: ‘Volevo rappresentare il martirio degli Ebrei sotto l’occupazione nazista e in particolare l’eroismo ebraico, incarnato dagli eroi del ghetto e dai partigiani, con dignità, enfatizzandone il profondo senso storico e il collegamento con il martirio e l’eroismo degli Ebrei del passato. Ho considerato il martirio degli Ebrei durante l’occupazione non come un episodio storico isolato ma piuttosto come un anello della catena di sofferenza subita dagli Ebrei per duemila anni, nella forma di persecuzioni, oppressioni, inquisizioni e genocidi. (Der szafer fun denkmal natan rapoport wegn zajn werk [Il creatore del monumento, Nathan Rapoport, parla del suo lavoro], in Der denkmal fun jidiszer gwure un martirertum / Le monument du ghetto de Varsovie / Pomnik ku czci Ghetta warszawskiego, traduzione di Anna Szyba, Parigi 1948, pp. 6–7)”.
Stiamo cercando di attirare l’attenzione del pubblico sull’altro lato del monumento perché vogliamo che diventi di nuovo parte integrante del percorso storico sui civili che per qualche mese dominerà il programma del POLIN.
L’ultima volta che ci siamo incontrati e ne abbiamo parlato, lei mi ha ispirata. Oggi, mentre venivo al museo, sono andata a dare un’occhiata all’altro lato del monumento.
Sono sicuro che riusciremo a far passare questo messaggio e che le persone deporranno fiori anche dall’altro lato del monumento, quello che commemora gli eroi silenziosi che hanno avuto il coraggio di lottare per le proprie vite.
Questo per quanto riguarda la mostra temporanea. Torniamo ora all’idea fondante del POLIN. Il museo è già molto conosciuto. Chiunque visiti Varsavia inizia dal POLIN. Perché è un tale fenomeno? Perché attrae così tante persone?
Da ex critico di architettura, dovrei iniziare magnificando l’edificio del museo per la sua assoluta unicità. Oggi però ritengo che il POLIN sia estremamente popolare soprattutto per via del suo percorso espositivo. Racconta secoli di storia ebraica in Polonia. Questa storia è poco conosciuta sia dai Polacchi che dagli Israeliani, a cui non è stata insegnata, ma anche dagli Ebrei della diaspora, che hanno dimenticato o non hanno mai saputo da dove vengono.
Il 70 per cento delle famiglie ebraiche che vivono nel mondo, soprattutto in Israele e negli Stati Uniti, ha le sue radici nella comunità polacco-lituana. La loro storia è stata dominata dalla Shoah. La Polonia – e intendo sia il suo territorio in termini geografici che lo Stato – è stata a lungo percepita come il più vasto cimitero ebraico. Pochi hanno capito che sono stati i Tedeschi, e non i Polacchi, a creare i campi di sterminio. I Tedeschi hanno scelto la Polonia solo perché la maggior parte degli Ebrei viveva nella regione che comprendeva Polonia, Lituania, Bielorussia e Ucraina. La scelta risolveva molti problemi logistici e riduceva significativamente i costi dello sterminio. Era più facile e più efficiente costruire i campi di sterminio in Polonia, si potevano uccidere le persone direttamente lì dove vivevano.
Credo fermamente che abbiamo avuto molto successo perché siamo l’unico museo al mondo che illustra quasi mille anni di storia degli Ebrei della diaspora all’interno dei confini storici della Polonia. Quando si gestisce un museo, è importante essere credibili. Non ci teniamo lontani da temi scomodi. Non si può separare la storia della Polonia da quella degli Ebrei. Si sono formati fianco a fianco, in costante contatto, anche con dispute e conflitti. Fino alla Shoah. Mostriamo il contributo dato dagli Ebrei alla cultura, all’economia, alla scienza e all’arte polacche. Parliamo anche dell’antisemitismo che è germogliato quando hanno iniziato a emergere gli stati nazionali e ha raggiunto il suo picco in Polonia prima della seconda guerra mondiale.
Le chiedevo anche del fenomeno POLIN. Che cos’è, e perché funziona?
Il fenomeno è il percorso espositivo. Vi hanno lavorato per molti anni, sotto la guida della professoressa Barbara Kirshenblatt-Gimblett, più di cento eminenti esperti: ricercatori, storici, etnografi e antropologi, in rappresentanza di varie scuole, istituti e università. In pratica, i migliori esperti disponibili al mondo. L’Associazione dell’Istituto storico ebraico della Polonia ha avuto l’idea di creare quello che inizialmente venne chiamato Museo della storia degli Ebrei polacchi (il nome POLIN è stato aggiunto qualche anno dopo l’inaugurazione del percorso espositivo principale). I membri dell’associazione, di ritorno da Washington, dove avevano visitato l’Holocaust Memorial Museum, hanno detto: “Non vogliamo un altro museo dell’Olocausto. Vogliamo un museo che mostri come sono vissute quelle persone, non come sono morte”. Solo la penultima galleria mostra la distruzione della diaspora ebraica in Polonia. Tutte le precedenti, a cominciare da quella della “Foresta”, dedicata all’arrivo in Polonia dei primi Ebrei, mostrano la storia dello sviluppo della comunità e della cultura ebraica, la tradizione di tutti i grandi movimenti del giudaismo, l’industria, l’economia e la scienza ebraiche. Mostrano anche scrittori, poeti, pittori e compositori ebrei e in generale tutte le persone eccezionali che hanno fatto parte della comunità ebraica della Polonia. La galleria “Eredità” racconta le loro storie. I visitatori possono scoprire Ebrei che hanno dato contributi enormi allo sviluppo della civiltà globale, comprese star di Hollywood che hanno lasciato la Polonia per sfuggire all’antisemitismo e hanno poi contribuito all’industria americana del cinema e dell’intrattenimento. Quando abbiamo aperto la galleria, ci è stato subito chiesto perché avessimo inserito Rosa Luxemburg fra gli Ebrei famosi. Arthur Rubinstein andava bene, come anche Samuel Goldwyn. Anche Ben Gurion, naturalmente, essendo uno dei fondatori dello Stato di Israele. Grandi scrittori, vincitori di premi Nobel, filosofi, Raphael Lemkin (che ha coniato il termine genocidio), Helena Rubinstein, andavano tutti bene. Ma perché Rosa Luxemburg? Beh, perché anche lei fa parte della storia degli Ebrei polacchi. La sua storia è stata raccontata e dovrebbe essere raccontata. Non ci importa la sua visione politica, il fatto che fosse convinta che gli stati nazionali dovessero essere aboliti in modo che il proletariato potesse trionfare. Proprio da questo si capisce la straordinaria ricchezza di questa eredità.
Mi faccia tornare alla domanda sulla cultura del ricordo. Chi decide come dovrà essere raccontata la storia degli Ebrei, della Shoah e della rivolta del ghetto di Varsavia? Dopotutto, questo è anche uno strumento politico.
Il museo POLIN decide il proprio programma. Potrei dirle che lo fa il direttore, ma non sarebbe la verità. Al POLIN c’è una squadra di grandi esperti che sviluppa programmi in grado di vincere i premi museali più prestigiosi. Si tratta prima di tutto di un loro successo. Io naturalmente partecipo alle riunioni sul programma, e ho una laurea in storia, ma per la maggior parte della mia vita professionale ho gestito grandi progetti, quindi di fatto sono un classico manager.
Prendiamo insieme le decisioni sulle prossime mostre temporanee. Vogliamo che coprano un’ampia gamma di argomenti. Talvolta presentiamo un tema attraverso l’arte, talvolta attraverso la cucina ebraica o il destino dei civili durante la rivolta del ghetto di Varsavia. Scegliamo noi i nostri partner, sia quelli per i contenuti che i media.
Siamo naturalmente aperti alla discussione con accademici e ricercatori. Sappiamo che per guadagnarsi una credibilità ci vogliono anni e che per perderla bastano pochi secondi.
Prima dello scoppio della pandemia, il 50 per cento dei nostri visitatori era costituito da turisti stranieri, provenienti soprattutto da Stati Uniti, Israele, Germania, Francia, Regno Unito, Spagna e Canada. Oggi siamo felici di annoverare fra i nostri visitatori anche gli Ucraini che hanno trovato rifugio in Polonia. Il dipartimento dell’educazione ha preparato per loro un programma speciale, in particolare per i bambini delle scuole. Un programma che illustra la storia degli Ebrei ma che rende anche più facile per loro adattarsi al paese in cui hanno dovuto rifugiarsi. La Polonia ha una storia estremamente difficile e drammatica, simile a quella che queste persone stanno affrontando oggi. Non siamo indifferenti. Abbiamo esposto la bandiera ucraina davanti al nostro museo il primo giorno dell’invasione russa. Dodici nostri dipendenti provengono dall’Ucraina. Abbiamo offerto loro la possibilità di proseguire la vita professionale in un paese straniero che potrebbe diventare il loro paese di residenza permanente. Non possiamo sapere come finirà la guerra, né se decideranno di tornare in Ucraina o di restare in Polonia.
Come immagina i prossimi anniversari della rivolta del ghetto di Varsavia? Come dovrebbe essere la cultura del ricordo?
Abbiamo registrazioni e racconti straordinari lasciatici dai testimoni che sono morti, quindi l’educazione basata sulla trasmissione orale, che ha un ruolo fondamentale, non cambierà. Saremo i custodi del ricordo della rivolta del ghetto di Varsavia. Saremo fermi nel contrastare ogni forma di esclusione, segregazione, razzismo e antisemitismo. Sono sicuro che i miei colleghi della squadra del POLIN, più giovani di me di qualche generazione, sapranno occuparsene.
Nel 2022 più di 500.000 bambini delle scuole di tutta la Polonia hanno preso parte alla Campagna dei narcisi. Quest’anno la campagna si terrà a Varsavia e in altre città polacche come Białystok, Lublino, Łódź, Cracovia e Wrocław. Ogni anno parteciperanno sempre più città. Il POLIN è parte dell’accordo siglato fra Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress, e Rafal Trazkowski, sindaco di Varsavia. Abbiamo inviato narcisi e materiale educativo a più di cento comunità ebraiche in tutto il mondo, selezionate dal World Jewish Congress, e anche al Parlamento Europeo, alla Knesset e al Senato e al Congresso americani.
Sono sempre di più i partner stranieri che contattano il nostro museo, questo conferma che la campagna è sempre più conosciuta e apprezzata. Di recente ho ricevuto un’email da un’insegnante di Christchurch, in Nuova Zelanda: mi ha chiesto di mandarle i narcisi e il materiale educativo. Glieli ho inviati e sono appena arrivati. A Christchurch, in Nuova Zelanda… da Varsavia sono quasi 10.000 chilometri, è un volo di 27 ore!
Ci saranno sempre più reazioni ad hoc, e questo conferma che il programma del nostro museo – comprese la campagna dei narcisi e la promozione dell’undicesimo comandamento, “Non restare indifferente!” – funziona, perché riguarda valori universali la cui importanza è riconosciuta in tutto il mondo. Il lavoro che abbiamo fatto nel corso degli anni non è stato vano. L’anno scorso circa 50 milioni di persone nel mondo hanno visto l’hashtag #RememberingTogether. Quante saranno quest’anno? Lo vedremo.
Letture consigliate:
https://polin.pl/en/thou-shalt-not-be-indifferent-program
L’articolo, originariamente apparso sul sito pl.boell , è stato tradotto dall’inglese da Alessandra Neve (Voxeurop)