La giornata mondiale del rifugiato è il momento adatto per tentare una panoramica della cruda realtà sulle frontiere esterne dell’Ue. Alla responsabilità umanitaria non si sfugge, né tantomeno la si può esternalizzare.
Pylos – Una tragedia greca?
Le immagini di Fadi e Mohamad hanno fatto il giro del mondo: due fratelli siriani che si baciano e si abbracciano, per quello che consentono le sbarre d’ acciaio che li dividono; sono entrambi evidentemente provati e commossi. Il più giovane, Mohamad, è stato trattenuto dalle autorità greche nel porto di Kalamata per un cosiddetto “primo screening”: è uno dei 104 sopravvissuti di quello che fino ad oggi è il naufragio con più vittime mai avvenuto a largo delle coste greche dalla Seconda guerra mondiale.
Si stima che sull'imbarcazione, capovoltasi nella notte tra il 13 e il 14 giugno a largo della città greca di Pylos, ci fossero, tra profughi e profughe, 750 persone. Il governo provvisorio greco ha disposto tre giorni di lutto nazionale.
Il maggiore è arrivato dai Paesi Bassi per cercare il fratello minore. Ha avuto fortuna: molti altri sono arrivati dalla Germania e da altri paesi per cercare i propri cari, ma i loro sforzi sono stati vani. Al momento, i cadaveri recuperati sono 78 ed è improbabile che vi siano ancora dei sopravvissut* da salvare, visto che è difficile persino recuperare i morti.
Per numero di morti, si è trattato di una disgrazia di portata storica, ma sarebbe sbagliato parlarne come di una catastrofe sulla quale nessuno avrebbe potuto incidere. Abbiamo il dovere di chiederci come è stato possibile che sia accaduto.
Una violenza sistematica
Ci sono svariati indizi che fanno pensare ad una corresponsabilità della guardia costiera greca: il collettivo di inchiesta “We are Solomon” ha dimostrato che l’organizzazione Alarm Phone aveva lanciato l’allarme già ore prima del naufragio: Frontex, la guardia costiera greca, l’Unhcr, persino le autorità italiane e maltesi, tutti ne erano informati. La guardia costiera greca sostiene di non essere intervenuta perché gli/le occupanti della barca non lo volevano, ma secondo esperti ed esperte di diritto internazionale – e anche secondo alcuni ex ufficiali della stessa guardia costiera – si tratterebbe di un atteggiamento colposo, perché tutti gli attori informati avrebbero avuto il dovere di intervenire.
Ma non si tratta solamente di omissione di soccorso. Sopravvissuti e sopravvissute riportano diversi tentativi delle autorità greche di traghettare l’imbarcazione al di fuori delle acque territoriali: insomma, le accusano di respingimenti illegali, un’accusa pesante che merita un’indagine indipendente affinché i colpevoli rispondano delle loro azioni. La procura greca ha già avviato un’indagine.
Quello di “respingere” al di fuori delle acque territoriali e delle frontiere greche barconi non idonei alla navigazione carichi di profughi e profughe è una vera e propria metoda, in uso da tempo.
E infatti non a caso chi tenta la fuga via mare sempre più spesso fa rotta sull’Italia anziché sulla Grecia. Anche in questo caso, l'imbarcazione puntava sulla Calabria, nonostante si trattasse di una rotta ben più lunga e pericolosa. È difficile negare il legame tra la politica della “fortezza Europa” con il suo credo – la difesa delle frontiere prima di quella delle vite umane, una politica quantomeno condivisa dalla Commissione europea e da vari stati membri, e il numero di persone morte nel tentativo di raggiungere l’Europa. Chi si stupisce del naufragio di Pylos nel migliore dei casi è un ingenuo che rifiuta di guardare la realtà delle frontiere esterne dell’Ue.
Una criminalizzazione dalle conseguenze fatali
Ad avere conseguenze fatali non sono soltanto i respingimenti attivi e la violenza esercitata su chi fugge, ma anche la crescente criminalizzazione della migrazione in sé e di tutti coloro che si mostrano solidali con i profughi e le profughe. Nel caso del naufragio di Pylos la procura ha incriminato nove uomini, accusandoli tra l’altro di traffico di esseri umani. Subito dopo la disgrazia, sia l’ex-premier Mitsotakis che il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno sottolineato la necessità di smantellare le reti dei trafficanti di esseri umani e non, per esempio, quella di creare cosiddette vie sicure e legali.
Al momento, nelle carceri greche migliaia di persone stanno scontando pene detentive – e in alcuni casi l’ergastolo – per traffico di esseri umani, spesso a fronte di procedimenti giudiziari brevissimi e di un’assistenza legale insufficiente. Sia per quanto riguarda Italia che per quanto riguarda la Grecia è ampiamente attestato il fatto che profughi e profughe vengono sistematicamente costretti dai trafficanti a guidare le imbarcazioni su cui fuggono ritrovandosi perciò accusati di traffico di esseri umani.
Inoltre, quest’ultimo naufragio non evidenzia soltanto la criminalizzazione delle persone migranti ma anche quella delle navi umanitarie. Pur impedendo molte morti nel mar Mediterraneo, nelle acque greche le organizzazioni umanitarie che si occupano dei salvataggi vengono criminalizzate a tal punto che ormai è un da tempo che non riescono più a salvare nessuno. Ad attiviste ed attivisti per i diritti umani persino il monitoraggio delle coste greche viene reso sempre più difficile, se non addirittura impossibile.
Questa crescente criminalizzazione implica anche una limitazione della libertà di stampa e tentativi di ostacolare le inchieste giornalistiche su migrazione e asilo: ad essere sistematicamente ostacolati sono ad esempio quei giornalisti e quelle giornaliste che si occupano della regione frontaliera sul fiume Evros o anche delle isole greche, bollati come traditori della patria e sottoposti ad attacchi mirati.
Recentemente in Grecia si sono svolte le elezioni politiche e stranamente, durante la campagna elettorale, la questione migrazione e asilo è passata sotto silenzio. Il successo di Nuova Democrazia (Nea Demokratia), il partito conservatore che ha governato finora, è stato considerevole ed è molto probabile che nella seconda tornata elettorale ottenga la maggioranza necessaria a governare. È difficile dire se tutti questi voti se li sia guadagnati nonostante o proprio grazie alla sua politica ostile a migranti e rifugiat*, ma sembra proprio che il governo del premier Mitsotakis sia riuscito a trasmettere l’idea di aver risolto il “problema” migratorio. A questo scopo il governo ha sbandierato fino all’ultimo un calo degli arrivi, anche se le statistiche ufficiali dell’Onu riportano un chiaro aumento di persone in cerca di protezione.
Giornata mondiale del rifugiato: una panoramica globale
Sono dati in linea con le tendenze registrate a livello globale. Sono usciti recentemente i dati pubblicati annualmente dall’Unhcr per la giornata mondiale del rifugiato che da tempo fotografano sempre la stessa tendenza: il numero di persone costrette a fuggire dalla guerra, dalla persecuzione e dalla miseria aumenta di anno in anno e la maggior parte di loro continua a spostarsi all’interno dei confini del proprio paese; chi varca le frontiere alla ricerca di protezione, invece, perlopiù non approda in Europa ma nei paesi del Sud globale.
La guerra di aggressione russa contro l‘Ucraina, però, ha condotto ad un forte aumento di coloro che cercano protezione in Europa, facendo tornare il tema migrazione e asilo in cima all’agenda dell’Unione europea e dei suoi stati membri. Mentre per anni differenze insuperabili tra i vari stati membri hanno impedito una riforma del Sistema europeo comune di asilo (CEAS), adesso, sotto la presidenza di turno della Svezia, il consiglio dei ministri della Giustizia e degli affari interni è giunto ad un compromesso che implica un considerevole inasprimento delle condizioni di profughi e profughe nonché la detenzione sistematica alla frontiera esterna. Per il governo greco questo accordo è un successo, mentre società civile ed espert* di diritto d’asilo criticano duramente le riforme previste.
“Stati terzi sicuri”: confini protetti e persone a rischio?
Ad essere criticato è in particolare un aspetto: l’estensione del concetto dei “paesi terzi sicuri”. Sul tema la Grecia è un passo avanti rispetto agli altri stati membri: già con l’accordo del 2016 tra Ue e Turchia quest’ultima è stata classificata come “paese terzo sicuro” per chi presentava richiesta d’asilo nei cosiddetti hotspot europei sulle isole dell’Egeo. Inoltre, due anni fa un decreto ministeriale ha dichiarato la Turchia sicura per tutti e tutte le richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Siria, Somalia, Pakistan e Bangladesh.
Eppure, la Turchia è sempre meno sicura proprio per i 3,6 milioni di Siriani e Siriane e per le migliaia e migliaia di persone provenienti dall’Afghanistan: prima delle elezioni parlamentari e presidenziali turche, tenutesi il 14 maggio 2023, tutti i partiti, salvo poche eccezioni, hanno cercato facili consensi promettendo di deportare le persone in Siria, in Afghanistan o in Iran. Con un’inflazione in crescita e una galoppante crisi economica, la popolazione turca è infatti sempre più ostile verso la presenza di migranti e rifugiat* nel paese. E anche il disastroso terremoto di febbraio ha avuto il suo peso. Benché sia chiaro che per Recep Tayyip Erdoğan, rieletto Presidente, mettere in pratica quanto annunciato – ossia l’espulsione di migliaia di Siriani e Siriane – non sarà poi tanto semplice, in Turchia la situazione di migranti e rifugiat* si fa sempre più precaria.
Tra i paesi sulla frontiera europea la Turchia non è l’unico ad avere un ruolo importante nella cosiddetta “gestione delle migrazioni”. Recentemente una delegazione composta dalla presidente della Commissione europea e dai capi di governo di Italia e Paesi Bassi ha offerto alla Tunisia, che affaccia sul Mar Mediterraneo, un generoso finanziamento da destinare anche a misure di lotta ai trafficanti e ai rimpatri. Si tratta proprio di quello stesso governo tunisino che, con i suoi discorsi incendiari cui hanno fatto seguito aggressioni razziste, ha spinto, all’inizio di quest’anno, molti dei circa 20.000 migranti presenti a lasciare il paese. Insomma, sostenere che la Tunisia sia un paese terzo sicuro per chi viene respinto dall’Ue è piuttosto difficile. E, tra gli attori importanti nel quadro dei tentativi di esternalizzazione dell’Ue, non ci sono soltanto i paesi che affacciano sul Mediterraneo.
Non possiamo cancellare il naufragio di Pylos, ma possiamo e dobbiamo trarne le giuste conseguenze per una politica europea dell’asilo e della migrazione degna di questo nome.
Uno studio svolto dall’organizzazione statewatch commissionato dall’ufficio di Bruxelles della fondazione Heinrich-Böll dimostra che da tempo questa politica punta anche sulla Bosnia-Erzegovina. Ultimamente, sulle prime pagine dei giornali è approdato un progetto dell‘”International Centre for Migration Policy Development” (ICMPD): far costruire un braccio detentivo nel campo profughi di Lipa in Bosnia. Secondo la stampa la Commissione europea avrebbe messo a disposizione 500.000 euro per il progetto, rispetto al quale le organizzazioni della società civile, comprese le nostre partner in loco, esprimono gravi preoccupazioni. Già con l’apertura del campo di Lipa, costruito con fondi europei, l’accesso ad avvocat*, sostenitori e sostenitrici era diventato più difficile e migranti e rifugiat* nel paese si trovavano ad essere quasi totalmente isolati.
È importante collocare tutte queste misure e tutte queste politiche all’interno di un quadro unitario. La giornata mondiale del rifugiato è il momento adatto per tentare una panoramica della cruda realtà sulle frontiere esterne dell’Ue. Alla responsabilità umanitaria non si sfugge, né tantomeno la si può esternalizzare. E questo anche se il dibattito su migrazione e asilo suggerisce che il diritto in generale possa essere rispettato anche quando in qualche caso particolare viene negato. “Non è possibile negare i diritti fondamentali ad alcuni garantendoli ad altri”, scrive la politologa Judith Kohlenberger nel suo libro “Das Fluchtparadox” (Il paradosso della fuga) che parla delle contraddizioni della nostra gestione della migrazione e dell’asilo. La giornata mondiale del rifugiato è anche una buona occasione per ricordarci come è nato il concetto d’asilo e per riflettere seriamente su quel che la storia ci insegna. Non possiamo cancellare il naufragio di Pylos, ma possiamo e dobbiamo trarne le giuste conseguenze per una politica europea dell’asilo e della migrazione degna di questo nome.
Questo articolo, pubblicato originariamente il 19.06.2023 sul sito boell.de, è stato tradotto da Susanna Karasz (Voxeurop)