Arnaud Daguin promuove un'agricoltura sostenibile legata ai territori, ripensando la ristorazione collettiva. Sottolinea decarbonizzazione, biodiversità, qualità nutrizionale e benessere di agricoltori e agricoltrici e animali.
Intervista realizzata da Vina Hiridjee, giornalista indipendente, con Arnaud Daguin, ex chef stellato e Portavoce & Vicepresidente dell’Associazione Pour une Agriculture du Vivant.
In quanto esperto di strategia alimentare e vicepresidente dell’Associazione Pour une agriculture du vivant, come definirebbe le condizioni del nostro sistema agroalimentare?
Arnaud Daguin: Stiamo vivendo una piccola rivoluzione, che forse non è ancora evidente a tutt* e riguarda il cibo servito nelle mense della ristorazione collettiva. Oggi sempre più persone hanno preso coscienza del legame essenziale che esiste tra la terra, le specie viventi e la nostra vita, e di quanto importante sia la maniera in cui consideriamo l’agricoltura e la nostra alimentazione. Sei anni fa, ho fondato l’associazione Pour une agriculture du vivant1, il cui impegno principale è difendere il valore intrinseco dei nostri prodotti alimentari. Non si tratta, naturalmente, di un valore commerciabile, poiché prezzo e valore sono due cose completamente diverse. Il valore intrinseco riguarda prima di tutto il nostro avvenire comune. Se si ha a cuore l’atto di nutrire le persone, è indispensabile sapere con cosa le si nutre.
Come ripeto spesso, “sei quello che mangi, e quello che mangi delinea il tuo mondo”.
Se decidi di mangiare soltanto Kentucky Fried Chicken (pollo fritto), per esempio, avrai anche tutte le conseguenze che ne derivano, vale a dire una vita molto breve e piena di inutili sofferenze per molti animali, un inquinamento permanente dei territori, una degenerazione della qualità alimentare e dei valori nutrizionali. Sono convinto che esistano cinque obiettivi principali che, indissociabili gli uni dagli altri, formano un approccio olistico. Questi obiettivi sono la decarbonizzazione dell’agricoltura, la conservazione delle risorse idriche, la protezione della biodiversità e la buona qualità e concentrazione nutrizionale degli alimenti. Infine, il quinto obiettivo è la chiave di volta dell’intero processo: il benessere di agricoltor* e animali, la cosiddetta FIL (Felicità Interna Lorda) applicata al lavoro agricolo, che ha le potenzialità per essere il più bel mestiere del mondo, poiché consiste nel nutrire le persone nel modo giusto. Per poter reinventare l’agricoltura, dovremo avere in testa questi elementi, altrimenti ci ritroveremo succubi del mondo in cui viviamo. Utilizzando questo approccio, invece, possiamo dare inizio a una trasformazione dei sistemi alimentari.
In che modo la ristorazione collettiva può incentivare la transizione agroalimentare?
La ristorazione collettiva è una leva colossale. Al contrario di ciò che si può pensare, l’importante non è la sua massa monetaria (il valore assoluto in termini finanziari o economici), ma il fatto che sia uno strumento potentissimo per riconnettere i nostri territori alla loro alimentazione. Viviamo in un mondo in cui territori non sono autosufficienti. Se domani vietassimo a tutti i camion in circolazione di muoversi, nel giro di 72 ore in ogni città della Francia, Parigi compresa, non ci sarebbe più niente da mangiare. Questa vulnerabilità è stata ben sottolineata da Stéphane Linou, tra i pionieri del locavorismo2. Il legame tra alimentazione e territorio deve essere assolutamente ripristinato, ma ci mancano ancora gli strumenti adatti, ad esempio i laboratori di trasformazione alimentare.
Lei è molto impegnato nella riprogettazione dei sistemi agroalimentari. Come dovrebbe essere, secondo lei, una politica alimentare pubblica innovativa?
Prima di tutto, dovrebbe dare fiducia alle diverse aree geografiche. Dobbiamo smettere di comportarci da giacobini e capire che ogni territorio si sviluppa a modo suo. Se collettivamente fissiamo degli obiettivi in termini di riduzione delle emissioni di anidride carbonica, uso delle risorse idriche, biodiversità, valori nutrizionali e benessere di agricoltor* e animali, spetta poi agli enti territoriali organizzarsi per raggiungere tali risultati. Sono secoli che non ci si affida più alle contadine e ai contadini, a chi lavora la terra o in ogni caso vive grazie a essa da molto tempo; si preclude loro la possibilità di essere davvero responsabili del proprio territorio. Anche i terreni agricoli sono una questione molto importante: da tempo sono le associazioni a sobbarcarsi tutto il lavoro, lo Stato non fa nulla in proposito. Non si tratta di incompetenza, ma di immobilismo assoluto e totale: queste problematiche non rientrano nell’ordine del giorno.
Vorrei che mi parlasse della “Scala delle Riches Terres”3, un concetto e strumento di valutazione concepito da lei. Continua a lavorarci?
Venticinque anni fa, per me le Riches Terres erano terre capaci di nutrire i propri territori e abitanti senza che ciò costasse una fortuna e con prodotti di alta qualità. Per misurarne i progressi e le modalità, e quantificare velocità e intensità con la quale ci si dirige verso queste Riches Terres, avevo immaginato (in maniera molto teorica, perché all’epoca non esisteva nessun indicatore) uno strumento che permettesse con un solo sguardo di vedere, sull’etichetta del prodotto, in quale posizione quest’ultimo si collocava in base a cinque parametri. All’interno di un cerchio c’erano tre linee: una per l’aspetto ecologico in generale (anidride carbonica, acqua, biodiversità), una per l’alimentazione, ovvero la qualità nutrizionale, e una per il benessere del/della contadin* produttor*, e quindi sulla sua capacità di trasmettere il suo modello economico e le sue conoscenze alla generazione successiva. Oggi questo indicatore funge da base per un altro strumento riconosciuto dallo Stato e dalla FNSEA4 denominato indice di rigenerazione, discendente naturale della Scala delle Riches Terres.
Come società, cosa possiamo fare per ridefinire il nostro legame e le nostre relazioni con gli altri esseri viventi?
Attraverso la Cultura, con la C maiuscola. Il sapere si trasmette come si può, quando si può, con la biodiversità che ci resta. In questi ultimi anni, però, abbiamo perso moltissima biodiversità agricola. Il fatto che l’80 per cento di quest’ultima sia scomparso è terribile, ma siamo anche stat* in grado di crearne di nuova, il che deve darci speranza: rigenerando possiamo ricreare biodiversità. Occorre avere fiducia negli esseri viventi. Occorre avere fiducia in noi stess* per lavorare in sintonia con tutto ciò che è vivo e non più contro di esso.
Il problema principale non è far emergere nuove idee, ma ammortizzare la perdita delle vecchie.
Oggi, per esempio, se osserviamo l’agricoltura in termini di volumi finanziari ed economici, è evidente che nella maggior parte dei casi non è orientata verso la salute di tutti, ma verso il benessere di determinate entità finanziarie. Dal punto di vista culturale, finché avremo compreso le sfide del settore agroalimentare, cambiare le cose sarà complicato.
Intervista realizzata da Vina Hiridjee il 15 dicembre 2023
Traduzione di Anna Bissanti, edizione di Elena Pioli | Voxeurop