Le proteste del mondo dell'agricoltura: davvero tutta colpa del Green Deal?

Analisi

All’inizio del 2024 le manifestazioni degli agricoltori europei hanno ottenuto un’ampia risonanza mediatica e una fioritura di commenti (molti) e di analisi (poche). La lettura prevalente del fenomeno ha tratteggiato un gruppo sociale compatto ed economicamente in difficoltà schierarsi contro le norme ambientali europee del Green deal che, sommandosi ad anni di legislazione lontana dalle vere esigenze degli agricoltori, sottoporrebbero questi ultimi a spese e vincoli ormai giunti oltre il limite della sostenibilità. Ma le cose stanno proprio così? 

Demonstration of farmers in the European Quarter in Brussels

All’inizio del 2024 le manifestazioni degli agricoltori europei hanno ottenuto un’ampia risonanza mediatica e una fioritura di commenti (molti) e di analisi (poche). La lettura prevalente del fenomeno ha tratteggiato un gruppo sociale compatto ed economicamente in difficoltà schierarsi contro le norme ambientali europee del Green deal che, sommandosi ad anni di legislazione lontana dalle vere esigenze degli agricoltori, sottoporrebbero questi ultimi a spese e vincoli ormai giunti oltre il limite della sostenibilità.

Questo tipo di lettura tende ad accomunare il caso degli agricoltori a quello dei gilet jaunes francesi, portando una vasta parte dell’opinione pubblica a ritenere inconciliabili le esigenze economiche - immediate e prioritarie -  con le esigenze ambientali - meno immediatamente tangibili e avvertite come frutto di circoli intellettuali poco a contatto con la realtà del lavoro concreto. La fine del mese contro la presunta fine del mondo, insomma, e siccome il mese finisce prima, l’urgenza ha tutto il diritto di vincere sull’importanza.

Ma le cose stanno proprio così? Per verificarlo occorre provare a fare un doppio sforzo: da un lato spostarsi dal piano empirico di ciò che è immediatamente visibile a prima vista all’analisi dei meccanismi che producono il malessere degli agricoltori; dall’altro esaminare i fatti per vedere se le letture prevalenti siano basate su evidenze solide.

I problemi strutturali

Il primo elemento da considerare è la realtà degli agricoltori all’interno del sistema economico. Si tratta di una realtà quantomeno duplice, spesso ridotta ad unum dalla pubblicistica con il risultato di rendere ben poco comprensibili i processi in atto. Da un lato vi sono realtà di grandi dimensioni - dotate di tecnologie avanzate, di accesso al credito e orientate su produzioni massificate - definibili come agroindustria o agrobusiness. Dall’altro realtà di piccole dimensioni, spesso collocate in aree di collina o di montagna, orientate a produzioni e a metodi di lavoro maggiormente rispettose del territorio e attente alla qualità dei prodotti.

Il reddito

Sul piano del reddito assoluto e del rapporto tra impegno lavorativo e ritorno economico, questa seconda categoria economica - definibile come agricoltura contadina o agricoltura familiare - è una tra le meno agiate in assoluto: a fronte di grandi sforzi e di passione – elementi che spesso la contraddistinguono, il guadagno è a livelli di sussistenza. Debole sul piano economico, l’agricoltura di piccole dimensioni è ancora predominante sul piano del numero di aziende. Eurostat[1] ci ricorda infatti che dei 9,1 milioni di aziende presenti nella UE al 2020, quasi i due terzi (il 63,8%) hanno dimensioni inferiori ai 5 ettari. Ma la superficie dei piccoli, sommata, è solo di poco superiore alla superficie complessiva delle pochissime aziende che possiedono più di 100 ettari. E la piccola dimensione, oltre a offrire redditi bassi, rende difficile la sopravvivenza. Sempre Eurostat registra una crescita della dimensione media aziendale nel tempo, a fronte di una stabilità della superficie totale coltivata nella UE (157 milioni di ettari di terreni dedicati alla produzione); un indicatore che racconta un processo di concentrazione della proprietà e ci suggerisce la necessità di passare dal puro dato economico verso la dimensione politica.

Autonomia formale, sudditanza sostanziale

Spostandosi dal piano empirico al piano dei rapporti politico economici è infatti possibile rintracciare la radice profonda di livelli di reddito così bassi. Il caso dei piccoli agricoltori è infatti emblematico di alcune tra le peggiori dinamiche in atto nell’attuale sistema economico, dinamiche che producono un enorme scarto tra la situazione giuridica formale e la situazione politico-economica sostanziale. Sul piano giuridico gli agricoltori conservano nei fatti una situazione d’indipendenza formale: la proprietà della terra su cui lavorano è nelle loro mani e in teoria le loro scelte potrebbero essere condotte in autonomia. Ma alla proprietà formale non corrisponde minimamente il controllo sostanziale del loro destino economico; veri e propri vasi di coccio tra due ordini di vasi di ferro gli agricoltori sono schiacciati da una doppia morsa tipica dell’evoluzione monopolistica che il capitalismo ha conosciuto in forma accelerata dopo gli anni ‘90 del secolo scorso: a monte i piccoli agricoltori sono soggetti al dominio di monopoli che li costringono a condizioni proibitive rispetto al credito e alla fornitura di input; a valle sono soggetti al dominio della grande distribuzione che riconosce loro percentuali risibili rispetto ai prezzi finali.

I dati sulla concentrazione del settore

Alcuni dati recentemente forniti dall’UNCTAD[2] (l’agenzia ONU che si occupa di commercio e sviluppo a livello mondiale) avvalorano questa tesi. Innanzitutto i dati raccontano di un processo di concentrazione impressionante: i primi quattro gruppi agroalimentari mondiali, di cui spesso non si conoscono neppure i nomi (Cargill, Archer Daniels, Midland, Bunge e Louis Dreyfus), controllano da soli circa il 70% del mercato agricolo globale. Questo permette a loro e ai loro simili una crescita altissima degli utili: i profitti totali delle nove principali aziende produttrici di fertilizzanti sono passati da una media di circa 14 miliardi di dollari prima della pandemia a 49 miliardi di dollari nel 2022.

Dall'insieme di questi dati emerge la tendenza più preoccupante in assoluto: l’estensione degli anelli della filiera controllati dai colossi dell'agribusiness. I grandi colossi internazionali hanno prima preso il controllo di impianti di lavorazione e di stoccaggio e di società di trasporto, poi hanno allungato le mani nel settore delle semenze e dei fertilizzanti, per diventare successivamente proprietari di enormi estensioni di terreni con centinaia di migliaia di ettari controllati nei principali paesi agricoli mondiali. E infine, negli ultimi 15 anni, sono diventati attori finanziari, svolgendo un ruolo centrale nella formazione dei prezzi anche grazie a prodotti finanziari sofisticati, sempre più adatti a scopi speculativi.

A livello europeo alcune di queste dinamiche si possono osservare attraverso analisi focalizzate su anelli specifici della filiera produttiva, in particolare esaminando i rapporti tra un mondo di agricoltori spezzettato e debole e un mondo della grande distribuzione assai più concentrato e in grado di imporre prezzi di acquisto molto bassi per calmierare l’offerta al consumatore.

I problemi congiunturali

Di fronte a dinamiche capitalistiche così marcate, l’unica possibilità di evoluzione sostenibile  per un settore tanto debole dovrebbe essere rimessa a un sistema pubblico funzionante che tuteli soprattutto i settori agricoli maggiormente rilevanti sul piano sociale, ambientale ed ecosistemico; in mancanza di questo genere di politiche le minacce per la sopravvivenza di un settore tanto importante possono portare a sollevazioni anche clamorose, come dimostra il caso delle forti proteste dei contadini in India davanti al rischio di perdere i supporti statali. In Europa lo strumento che ha provato negli ultimi decenni a rispondere alla richiesta di una protezione e una pianificazione adeguate è la PAC (Politica agricola comune - nata negli anni ‘50, riformata nel 2003, rivista nel 2013 e nel 2024) la cui adeguatezza al livello dei problemi in atto sembra, tuttavia, largamente insufficiente.

 

Fondi insufficienti

La prima questione è di natura quantitativa. I fondi destinati alla PAC sono stabili negli anni (55 miliardi di euro circa - per il periodo 2021-2027 sono stati assegnati alla PAC 387 miliardi di euro di finanziamenti[3]) e in calo percentuale rispetto al totale dei bilancio europeo. A sua volta il bilancio europeo è fortemente sottodimensionato. Un vero organismo federale avrebbe bisogno di gestire una percentuale significativa del bilancio fiscale proveniente dagli stati membri, ma nell’Unione europea oggi i trasferimenti degli stati si aggirano ben al di sotto all’1%[4] dei loro bilanci (un totale risibile a cui i dazi doganali comuni non apportano incrementi molto significativi). In assenza di strumenti finanziari europei per sostenere adeguati interventi di politica pubblica, la gran parte dell’attività UE si riduce all’emanazione di norme, spesso proposte sotto forma di divieti o di comportamenti obbligatori; non esattamente il modo migliore per conquistare il consenso, né per sviluppare politiche efficaci.

Politiche distorsive e orientate sulla quantità

La seconda e decisiva questione è di natura politica: la PAC non riesce a darsi obiettivi coerenti con la realizzazione delle missioni di tutela sociale, ambientale ed ecosistemica a cui, almeno a livello di dichiarazioni di principio, l’agricoltura è chiamata.

La PAC è formata da due pilastri, il primo è di tipo quantitativo e negli anni ha attribuito contributi proporzionali alle superfici: quanto più sei grande, quanto più ricevi. Il secondo pilastro della PAC è più orientato all’aiuto infrastrutturale e a obiettivi qualitativi (tra cui la transizione ecologica), ma il suo bilancio è molto inferiore rispetto al primo pilastro e non riesce minimamente a coprire le spese necessarie alla realizzazione degli obiettivi di principio.

La questione del Green Deal

Di fatto la PAC non tiene conto dell’esistenza delle due agricolture, favorendo nei fatti quella già più potente e non assegna fondi sufficienti alla transizione ecologica e agli altri scopi di natura sociale e innovativa (turismo locale, agricoltura biologica…).

In questo scenario si innescano le dinamiche del Green Deal.

La strategia europea di transizione ecologica e di lotta al cambiamento climatico denominata Green Deal è un insieme di strategie settoriali che si stanno traducendo in normative e divieti, spesso condivisibili, ma non supportate da fondi sufficienti. Di fatto il Green Deal, nella sua specifica declinazione agricola, aveva previsto alcuni interventi rilevanti di cui qui vengono ricordati solo due esempi: la norma che mirava a dimezzare entro il 2030 l’uso dei pesticidi rispetto alla media del 2015-2017 e la norma che obbligava gli agricoltori a lasciare a riposo il 4% dei campi per accedere ai fondi europei. 

Sono queste norme i veri nemici degli agricoltori scesi in piazza con i trattori? Difficile affermarlo anche perché entrambe viaggiavano già su binari accidentati prima che esplodesse la protesta: la norma sui pesticidi era stata bloccata dal Consiglio europeo nel novembre del 2023, prima di essere formalmente affondata nel febbraio 2024 dalla Commissione, la seconda era stata prima temporaneamente sospesa - durante la guerra in Ucraina - e poi alleggerita a gennaio 2024 con un proposta che prevede si possano coltivare piselli, fave o lenticchie e comunque colture a crescita rapida[5].

In sintesi: colpa dei monopoli o del green deal?

Dall’insieme di questi dati appare chiaro che la radice della questione contadina non è di tipo ambientale, quanto di tipo economico: i grandi monopoli a monte e a valle della produzione strozzano i piccoli produttori imponendo loro costi alti e prezzi di vendita bassissimi. Su questo tipo di struttura politico economica la PAC non interviene in maniera appropriata, amplificando di fatto gli squilibri tra grande e piccola agricoltura e non fornendo i mezzi economici per realizzare gli obiettivi del Green Deal.

Davanti a questa situazione la soluzione proposta da gran parte della pubblicistica auspica la soppressione di fatto del Green Deal, dimenticando non solo che l’origine del problema è un’altra, ma soprattutto che gli obiettivi della transizione ecologica non sono un lusso per radical chic. Al di là di molte altre considerazioni di natura più ampia basterebbe ricordare che l’inazione verso i cambiamenti climatici produce costi enormi per i produttori agricoli, tra le categorie più esposte alle variazioni del clima e ai disastri meteorologici che stanno affliggendo in maniera crescente anche le nostre latitudini.

L’alternativa politica che si para davanti ai nostri occhi appare allora riassumibile in una domanda sola: è più saggio migliorare la qualità della vita sul pianeta abbattendo i costi complessivi sopportati dagli agricoltori e dall’umanità tutta, oppure peggiorare la qualità della vita sul pianeta, aumentando di molto i costi? Sembra incredibile, ma sta prevalendo la prima risposta.

 

[1] EUROSTAT: Distribution of EU farm and utilised agricultural area according to farm size (2020)

[2] UNCTAD Trade and Development Report Update (Aprile 2024)

[4] European Commission - Multiannual financial framework 2021-2027 e Mid-term revision of the MFF 2021–2027 (Giugno 2023)